venerdì 12 marzo 2010

Clandestinità

La decisione della Suprema Corte. Immigrati, solo per i "buonisti" la Cassazione è stata spietata di Antonio Mambrino

La sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di un immigrato clandestino di sospensione del decreto di espulsione in relazione alla necessità di consentire ai propri figli il regolare completamento del ciclo scolastico ha determinato la prevedibile reazione dei seguaci del pensiero politicamente corretto, inclusivo e multiculturale che hanno denunciato la mancanza di pietà della Suprema Corte, l’attentato ai diritti universali dell’uomo. Ma la decisione contiene almeno tre buone cose sulle quali è opportuno riflettere: una prettamente politica, una di metodo ed una di merito. Quanto alla politica, la sentenza dimostra come è perfettamente legittimo ed anche auspicabile che le decisioni dei giudici siano oggetto di confronto ed anche di polemica politica. Dopo mesi di insopportabile retorica sul fatto che le sentenze si rispettano, dopo mesi di grida al colpo di Stato ogni qualvolta un esponente del centrodestra si permetteva di polemizzare con un pronunciamento dei giudici, finalmente anche l’intellighenzia della sinistra si accorge criticare le sentenza fa parte del normale dibattito politico democratico. Non sappiamo ancora se anche in quest’occasione l’onorevole Di Pietro troverà il modo di smarcarsi dal PD e lo costringerà ad un affannoso recupero. Ma certo le violente accuse lanciate dai giornali della sinistra (l’Unità in testa) fanno ben sperare. Non proviamo certo nostalgia per l’ortodossia comunista secondo la quale la magistratura nel suo complesso era strumento al servizio del nemico di classe. Né arriviamo a rimpiangere Palmiro Togliatti quando da Ministro della Giustizia, nell’immediato dopoguerra, riuscì con un decreto a far entrare in magistratura senza concorso circa 300 persone (i cosiddetti "togliattini") con il preciso obiettivo di riequilibrare politicamente l’ordine giudiziario. Ma certo un bagno di sano realismo e di laicità liberale è benvenuto nella fase attuale nella quale la sinistra sembra essere sempre più vittima del giustizialismo, del formalismo giuridico e del buonismo democraticistico. Importante è anche il profilo di metodo. Con la sentenza n. 5886 la Cassazione sembra affermare un principio banale, ma del quale avevamo perso le tracce. Compito dei giudici non è quello di scrivere le leggi, e neanche quello di ricavare le regole, semmai partendo da generici “principi fondamentali”. Compito dei giudici è quello di applicare le leggi al caso concreto sottoposto al loro esame. In una democrazia, la valutazione e la ponderazione degli interessi che entrano in gioco in ciascun caso della vita è in via generale rimessa all’organo rappresentativo del popolo e l’ordine giudiziario è indipendente dal potere politico ma è sottoposto all’autorità della legge. Nel nostro sistema, salvo casi eccezionali, i giudici non possono e non devono pronunciarsi secondo giustizia o secondo equità. Devono puramente e semplicemente applicare le leggi votate dal Parlamento. E se è vero che in ogni attività di applicazione del diritto vi sono ampi margini di interpretazione discrezionale, è anche vero che tali margini non possono in alcun modo legittimare spericolate operazioni ermeneutiche che finiscono per creare nuovo diritto (si pensi alla sentenza sul caso Eluana) o peggio contraddire frontalmente il diritto, come risultante - al di là di ogni ragionevole dubbio dalle leggi vigenti. Quanto infine al merito della questione occorre essere chiari. E’ del tutto ovvio che l’interesse pubblico alla lotta contro l’immigrazione clandestina deve sempre essere contemperato con altri interessi in gioco. E’ del tutto evidente che i principi di umanità e di rispetto della persona sono universali e che pertanto debbono prevalere sugli altri valori dell’ordinamento. Ma tutto ciò premesso è anche chiaro che se dilatiamo oltre il ragionevole tali principi rischiamo di svuotarli di contenuto e di farne dei meri alibi che minano alla base il principio di responsabilità individuale che rappresenta l’architrave della civiltà giuridica. La questione è in realtà semplice. Si prenda ad esempio la situazione dell’immigrato irregolare che abbia bisogno di cure mediche. In tal caso ci si trova di fronte ad un bisogno urgente, transitorio e (normalmente) non dovuto ad una scelta o ad un comportamento consapevole del soggetto. Un bisogno che riguarda direttamente il bene fondamentale della vita umana. E sarebbe pertanto inconcepibile negare tali cure semplicemente a causa della situazione di clandestinità del soggetto. Nel caso della frequenza scolastica dei figli ci troviamo di fronte ad un bisogno sicuramente meno nobile ed in ogni caso non urgente, non transitorio (visto che la formazione scolastica dura come minimo dieci anni) e causato da una scelta volontaria dell’interessato (essersi fatto seguire dai propri figli in Italia nonostante non avesse un valido permesso di soggiorno). Considerare tale situazione come sufficiente ad impedire l’applicazione di un decreto di espulsione sarebbe del tutto irragionevole. Non solo. In questo modo si determinerebbe una grave disparità con l’immigrato regolare che alla scadenza del proprio permesso decida di ritornare nel paese di provenienza e semmai di far proseguire lì gli studi ai propri figli. E si produrrebbe anche un perverso incentivo agli immigrati irregolari ad “usare” i propri figli come scorciatoia per ottenere in via di fatto quel permesso di soggiorno che non sono riusciti ad avere in via di diritto. Ma di tutto ciò i cantori della solidarietà, dell’umanità e dell’accoglienza si guardano bene dall’occuparsi. Impegnati solo a rimirare il proprio ombelico, non si accorgono che la bontà se scissa da altrettanta intelligenza finisce per determinare solo ingiustizie.

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