mercoledì 21 luglio 2010

Gianfranzo Fini e la bomba


Roma - La vera bomba è quella che Gianfranco Fini sta aspettando da mesi per disarcionare Berlusconi e catapultarsi, dall’oggi al domani, nel vagheggiato dopo Silvio. La detonazione deve arrivare da qualche procura, verosimilmente siciliana, che scoperchi verità inaudite e terribili sul conto di Forza Italia. Che però, fino a prova contraria, è pur sempre il principale partito da cui nasce il Pdl, che fino a prova contraria è ancora il partito a cui appartiene Fini.

Lo ha ripetuto ancora ieri, il presidente della Camera, restando sulla consueta linea di un colpo al cerchio e uno alla botte: «Nel Pdl vogliamo continuare a rimanere perché è la nostra casa politica, ma con la ferma convinzione di chi sa che nel Pdl bisogna fare molto per migliorarlo». Insomma il Pdl non ci piace ma non ci faremo cacciare né ce ne andremo, per non «dare soddisfazione» a chi ce lo chiede, come fa per esempio Vittorio Feltri. Il livello dello scontro tra finiani e maggioranza berlusconiana è ormai prossimo al limite. La strategia di Fini è abbastanza chiara: tendere la corda finché può, vestendo i panni del rinnovatore del Pdl, e giammai quelli del traditore. Tutto in attesa (e nella speranza) di uno sconquasso che spazzi via l’avversario, eventualità che non può certo concretizzarsi con una prova elettorale - questo Fini lo sa bene - ma solo con un boato giudiziario. Da questo punto di vista le parole del pm di Caltanissetta lasciano ben sperare l’ala finiana, e qualcuno ieri si è ricordato del famoso fuori onda di Fini, mesi fa, in cui confidava al procuratore Trifuoggi le sue aspettative circa le deposizioni del pentito Spatuzza («il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza, può aprire scenari... perché è una bomba atomica»).

«È arrivato il momento di un congresso», spiega Fini ai suoi di Generazione Italia, «come si fa nei partiti democratici», lasciando intendere che il Pdl non lo è. Quel che pensa del suo partito è invece riassumibile in un’espressione, «centralismo carismatico», in cui «c’è uno solo che pensa per tutti: questo è inaccettabile, la democrazia è un’altra cosa e non può valere il “dopo di me il diluvio”». E poi: «Non dobbiamo limitarci a dire che abbiamo vinto tutto, bisogna guardare avanti». La sfida ormai è aperta, e Fini ieri lo ha esplicitato in modo più palese che mai, forse sull’onda del successo sul ddl intercettazioni, che è passato in una versione più finiana che berlusconiana. Così l’ex leader di An ha trovato modo di contraddire la linea del suo governo sostanzialmente su tutto. Sulla manovra, che non può essere appannaggio «solo di Tremonti». Sul federalismo, che mette a rischio «l’unità nazionale». Sui problemi giudiziari nel Pdl, che confonde «garantismo» col «giustificazionismo». Rotta di collisione calibrata perfettamente, il punto è capire dove porti. Fini punta a un congresso per ridefinire la leadership nel Pdl, ma su quali numeri? O forse aspetta notizie da Caltanissetta.

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