sabato 30 ottobre 2010

Strettamente personale

Parto, domani. Una toccata e fuga per scappare da quasi un anno pessimo, cupo, sfigato e doloroso. Scappo dalla realtà fino a lunedì. Se mi cercate, probabilmente (salvo diluvio universale) mi troverete a zonzo da queste parti. Vestita (forse) da Mary Poppins e accompagnata da 4 spazzacamini.

E per chi non ha paura della notte delle streghe... naturalmente, Happy Halloween! Dolcetti e scherzetti a tutti!


L'immagine rappresenta "El dia de los muertos". Una delle feste messicane più caratteristiche riguarda le celebrazioni in occasione del Día de los Muertos, il Giorno dei Morti. Nell’atmosfera di un’allegria generale e condivisa, le famiglie preparano dolcetti a forma di ossa o scheletri, portando fiori e ghirlande sulle tombe dei loro cari passati a migliori vita, mentre il cimitero diventa location di un Halloween dalle sfumature grottesche.

Secondo un’antica credenza messicana i defunti proprio durante la notte di Ognissanti hanno la possibilità di tornare per un esile frammento di tempo sulla terra, avvolti dalle tenebre del buio e riabbracciare i loro cari, partecipando ai ricchi banchetti che ancora oggi ogni famiglia prepara radunando amici e parenti al tavolo imbandito in previsione di lunghissime cene. Per questo ogni famiglia lascia spalancato il portone di casa, pronto ad accogliere l’arrivo dell’antico sposo, sorella, o amico.

Secondo la tradizione la sera del 31 ottobre è l’inizio del Giorno dei Bambini Morti, seguito dal primo giorno di novembre, il Giorno dei Morti Adulti: scheletri e teschi, che ricorrono spesso anche nella variopinta iconografia messicana, si ergono a mistico simbolo di questa giornata dove si scherza con la Morte, raffigurandola in una forma che ne allontani il brivido attraverso la risata e il colore. La festa di Halloween venne introdotta in America dai primi immigranti irlandesi e scozzesi, tanto che Dublino resta uno dei luoghi più venati di mistero per festeggiare Halloween tra fate e l’alone di spettri antichi.

Gli irlandesi credevano che gli spiriti durante questa notte fossero di nuovo presenti e di qui nacque l’usanza di accendere ceri e candele, in una simbolica lotta tra la luce e le tenebre, un incontro giocato nella perpetuità dei sentimenti e nell’impossibilità della vicinanza tra vivi e defunti, nella drammatica appartenenza a due mondi differenti. Non volendo rimanere soli di notte, gli irlandesi iniziarono la tradizione di andare di casa in casa, raccogliendo cibo per una festa della comunità.

Oggi Halloween trasforma Città del Messico e l’intero Messico in un onirico Día de los Muertos, dove le comunità si riuniscono, fanno festa e mescolano tradizioni cristiane ad antiche usanze precolombiane. Se vi capiterà di essere nei dintorni di Città del Messico sicuramente assaggerete il pane dei morti, pan de muertos, ornato di fiori, frutta e zucchero colorato e i teschi di zucchero, calaveras che solitamente si regalano ad amici e parenti.

I fidanzati si giurano eterno amore davanti a bare di zucchero che si aprono a scatto su piccoli scheletri che portano il nome dell’amato, mentre il Messico intero, Paese surrealista per eccellenza, inizia a danzare sulle onde di un rituale dove la Vita prende per mano la Morte in una risata densa di paura e attrazione. Rinasce lo spirito di Coatlicue, antica dea creatrice e distruttrice cui il popolo Azteco era devoto: madre Terra dispensatrice di vita e al tempo stesso divoratrice assetata del sangue degli uomini, in vista di un equilibrio universale necessario quanto fragile. Memori del tragico tango di Vita e Morte, i messicani riportano alla vita gli spettri dei cari estinti, bevendo alla salute di un’esistenza che si rinnova all’ombra della signora dalla falce, mentre la festa assume i contorni di un rito secolare.

venerdì 29 ottobre 2010

Ancora sul processo a Wilders


Tutto da rifare. Il processo a Geert Wilders, reo di istigazione all’odio anti-islamico, e’ stato invalidato dalla Corte di Appello di Amsterdam, per irregolarita’ e vizi di procedura, e dovra’ ricominciare da capo con un nuovo collegio di giudici. La responsabilita’ e’ delle toghe che palesemente fin dall’inizio, hanno mal celato una sorda ostilita’ verso l’imputato, e poi alla fine hanno tentato anche di corrompere e influenzare un testimone della difesa – invitandolo a cena - dando cosi’prova di una condotta scorretta e disdicevole, che l’avvocato della difesa, Bram Moszkovicz ha definito a dir poco, scandalosa. Certo e’ che la Corte di Giustizia di Amsterdam ha fatto una figuraccia - altro che maesta’ della legge! - mostrando a tutto il mondo segni di incapacita’ nel procedere nell’iter giudiziario, e di arrivare cosi’ ad un’ equa sentenza, proprio mentre aveva l’attenzione internazionale puntata su di se’.

Sin dall’inizio della ripresa dell’istruttoria, l’avvocato della difesa aveva fatto notare che il giudice istruttore era pregiudizialmente mal disposto verso Wilders, tanto che se n’era uscito con una battuta spiritosa, quando questi s’era appellato al diritto di rimanere in silenzio. Ma poi il processo era andato avanti a favore dell’ imputato che era stato ritenuto non colpevole dell’accusa d’aver insultato la religione islamica, mentre rimaneva in piedi la seconda imputazione, quella di islamofobia e incitamento all’odio. Ma ultimamente c’e’ stato il colpo di scena che ha visto uno dei giudici della corte, Tom Schalken colto in flagrante mentre si incontrava a cena, con un testimonio, Hans Jansen, esperto di islamismo.

Come dovevasi dimostrare i giudici non hanno certo dato prova di imparzialita’, ne’ di onorabilita’ e la migliore cosa da auspicarsi e’ il proscioglimento dell’imputato, vista l’infondatezza delle accuse. E’ ormai lampante che il processo a Wilders e’ un processo politico che e’ stato istruito solo per diffamare un leader conservatore, di fama internazionale che e’ politicamente vincente e in ascesa. E' percio’ temibile, sono infatti un milione e quattocentomila Olandesi che hanno votato per lui, nelle elezioni di giugno.Tanto piu’ che, non e’ solamente Geert Wilders che e’ sotto accusa, ma anche la liberta’ di parola e tutti quei valori giudeo-cristiani -usiamola questa parola!- che sono alla base della nostra civilta’ occidentale e della nostra cultura.

Oh, se ce lo siamo chiesti...


Sono ormai trascorsi più di due anni dal tragico incidente automobilistico che è costato la vita a Joerg Haider, ricordato lo scorso 11 ottobre da circa trecento persone nella terra natia, ma il leader ultranazionalista carinziano continua a far rumore anche dal cimitero dove è sepolto. Si occupa di lui, in una dettagliata inchiesta, il settimanale Profil, sostenendo, tra l' altro, che i servizi segreti tedeschi del Bnd pagarono il famoso viaggio dell' illustre defunto a Baghdad da Saddam Hussein nel 2002, e spesero centinaia di migliaia di euro per controllarne i movimenti. Questi danari si sommerebbero a quelli ricevuti dall' ex dittatore iracheno per sponsorizzare la sua causa in occidente, e anche qui si parla di somme ingenti.

A fronte di queste notizie, risultano meno misteriosi i movimenti costanti attorno al tesoro attribuito al padre storico dell'FPO. Ad agosto erano uscite indiscrezioni, poi smentite, su società e conti occulti per un totale di 45 milioni di dollari riferibili al politico che univa folclore e decisionismo; un gruppo di ricercatori aveva scovato fondi sospetti esaminando procedure sulle condizioni di acquisto della Hypo Group Alpe Adria da parte della banca pubblica tedesca Bayern-Lb e sulla privatizzazione di una società immobiliare. Ora, Profil aggiunge nuovi tasselli suscettibili di creare qualche ansia agli 007 della cancelliera Merkel. Secondo la rivista, Haider sarebbe stato coadiuvato dalle barbe finte di Berlino attraverso un'agenzia investigativa, la HCL International Ltd di Salisburgo, attiva in tutto il mondo con filiali sparse da Mosca a Città del Capo. Il crac di quest'ambigua società di sicurezza ha portato alcuni dipendenti a parlare degli strani rapporti con gli uffici riservati del Paese confinante, corroborando i sospetti dei giornalisti che da anni seguono la pista dei loro rapporti ambigui con l'uomo di Klagenfurt.

La vicenda, che prevedibilmente registrerà altre puntate - la pagina dei sostentamenti da Tripoli è tutt'altro che chiusa - ha ovviamente guadagnato l' attenzione della Cia, che avrebbe chiesto conto della storia, senza troppi riguardi, ai colleghi teutonici. Nella caccia al tesoro, irrompe dunque , e forse non poteva essere altrimenti visti gli intrecci e le implicazioni, il pianeta intelligence. Con i dietrologi internazionali ancora scettici sul fatto che la dipartita del capopopolo d'Austria sia davvero attribuibile a un malaugurato sinistro su una macchina di grande cilindrata in una notte d' autunno.

giovedì 28 ottobre 2010

Geert Wilders


Cari amici, come è brava la stampa italiana a dare la caccia agli xenofobi. E come sa distinguere gli argomenti propagandistici giusti da quelli che possono far confondere le idee ai bravi democratici di questo paese. Prendete per esempio il terribile islamofobo e xenofobo Geert Wilders, deputato olandese spauracchio di ogni bravo eurarabo. Pensate che ha fatto un film per mostrare che ci sono delle somiglianze fra il Corano e Mein Kampf. (se vi interessa trovate qui la prima parte e i link con le altre tre: qui). I giornali italiani e di tutt' Europa hanno lodevolmente dato notizia del processo intentato a Wilders per oltraggio a una religione, incitamento all'odio razziale e quant'altro.

Ma poi giustamente non hanno raccontato com'è andato il processo e dintorni. Non hanno mai detto per esempio che ci sono state testimonianze che mostrano come il più importante giornale olandese, "De Telegraaf" abbia rivelato che l'indagine contro il leader del partito democratico olandese (che ha purtroppo triplicato i suoi voti nelle ultime elezioni) sia stato personalmente voluto e diretto, in un certo senso imposto dal ministro della giustizia olandese, dunque da un concorrente politico di Wilders, tal Hirsh Ballin (qui).

Con l'eccezione del "Giornale" (qui) non hanno detto che la procura durante il processo ha abbandonato la maggior parte delle accuse perché manifestamente infondate (vedi per esempio qui). Soprattutto: hanno parlato del primo tentativo di ricusazione del collegio giudicante, che la difesa di Wilders ha tentato quando l'imputato si è avvalso del diritto di non testimoniare e il giudice in pieno processo ha detto più o meno che questo dimostrava che il deputato fosse bravo a far demagogia ma non a confrontarsi (qui), ma poi non hanno detto che c'è stata una seconda ricusazione, quando la corte ha rifiutato di sentire un testimone chiave che era stato contattato dall'accusa per convincerlo a volgere la sua testimonianza contro Wilders e che questa ricusazione è stata accolta, annullando il processo svolto finora, che dovrà forse essere rifatto.

(qui) Il risultato è che "il processo Wilders ha 'backfired' [tradurrei: fatto autogol] in ogni modo possibile" (così un giornale non proprio estremista come il Wall Street Journal (qui). Non ne hanno parlato anche se la notizia era nota in Italia e trasmessa da alcune agenzie (qui). Come vedete i giornali italiani sono ottimi, perfetti strumenti di propaganda che spiegano alla gente cosa pensare. E in questo c'è poca differenza fra destra e sinistra, Talvolta perfino "Il giornale" e "Libero" (non "Il foglio", per fortuna) chiamano Wilders xenofobo esattamente come "Repubblica" e "l'Unità", anche se Wilders è un sincero democratico, un liberale, non si sogna di essere razzista ed è amico di Israele (se vi interessa come la pensa, guardate qui, il seguito è a fianco, o qui). Il buon Antonio Gramsci approverebbe, e parlerebbe di "egemonia" del pensiero "progressista" e terzomondista anche sui suoi avversari.

Eurabia avanza anche in Francia


Roma - . Le Monde ha parlato di “allarmante rapporto sul comunitarismo”. Anche la Francia fa i conti con il fallimento del modello d’integrazione dopo la denuncia della cancelliera tedesca Angela Merkel (“Il multiculturalismo ha fallito, fallito completamente”, aveva detto Merkel). L’alto Consiglio per l’integrazione, un organismo statale creato anni fa, nell’ultimo rapporto denuncia problemi crescenti con le scuole ad alta densità di immigrati musulmani, soprattutto nell’impartire lezioni sull’Olocausto, le crociate, il cristianesimo, in un “rigetto dei valori e della cultura francesi”. “E’ diventato difficile per gli insegnanti resistere alle pressioni religiose”, recita il rapporto. La laïcité francese, già sotto accusa per aver imposto il bando totale del burqa islamico nei luoghi pubblici (ieri in un messaggio al Qaida è tornata a mettere in guardia Parigi su questo tema), trema a causa della forte pressione islamica in seno alle sue comunità (in Francia sono cinque milioni i cittadini di fede musulmana). Il documento non prende in considerazione tutte le scuole e genericamente i figli di immigrati, ma soltanto quelli che frequentano le “scuole ghetto”. Il testo sarà presentato al primo ministro nei primi giorni di novembre e smonta uno dei pilastri dell’identità francese. Lo studio mostra che in Francia la percentuale di adolescenti sotto i 18 anni e di origine straniera è del 18,1 per cento, contro il 22 nei Paesi Bassi, il 25 in Svezia, il 28 in Germania. Quindi in linea con gli altri paesi a forte immigrazione. Il primato francese è semmai nella distribuzione ineguale di questa popolazione nel territorio. Le concentrazioni più elevate si trovano a Seine-Saint-Denis (57 per cento), Parigi (41) e Val-de-Marne (40). La sovrarappresentazione supera addirittura il 60 per cento in venti città, dove una persona su cinque è di origine nordafricana e una su sei di origine sub-sahariana. “Non è raro avere classi e scuole primarie composte interamente da studenti di origine straniera e che condividono la stessa fede”, si legge nel documento, che spiega come questo “effetto ghetto” ha implicazioni drammatiche sulla Francia. Il presidente dell’alto Consiglio per l’integrazione, Patrick Gaubert, già presidente della Lega contro il razzismo e l’antisemitismo, parla di “sfida alla società francese” e del pericolo di una repubblica frammentata, “communautaire”, divisa per ghetti, dove la comunità etnica o religiosa diventa rifugio, ostilità, antagonismo. Nel 2005 un appello firmato da note personalità, fra le quali Bernard Kouchner, gli intellettuali Alain Finkielkraut e Pierre- André Taguieff e il giornalista Jacques Julliard, aveva stigmatizzato un movimento di “odio francofobo” che si espandeva sopratutto nelle scuole. Una sorta di “francofobia che nasceva dal fallimento del modello d’integrazione nazionale. “La rivolta nelle periferie non è sociale né economica ma etnico-religiosa, opera di islamici arabi e neri”. Per queste frasi Finkielkraut venne denunciato per “incitamento all’odio razziale” dal Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli, presieduto da Mouloud Aounit, francese algerino. Finkielkraut rincarò poi la dose: “L’antirazzismo benpensante è pericoloso, beatifica lo straniero lasciando il campo libero a tutte le derive”. Adesso un rapporto statale sembra confermare queste analisi pessimistiche. E la famosa Francia “una e indivisibile” scopre di avere in seno un grave problema di assimilazione a cui la laicità coatta non è capace di far fronte. Materie come l’islam, la recente storia del medio oriente, la guerra francese in Algeria, gli interventi americani in Iraq e Afghanistan, in modo ancora più modello d’integrazione nazionale. “La rivolta nelle periferie non è sociale né economica ma etnico-religiosa, opera di islamici arabi e neri”. Per queste frasi Finkielkraut venne denunciato per “incitamento all’odio razziale” dal Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli, presieduto da Mouloud Aounit, francese algerino. Finkielkraut rincarò poi la dose: “L’antirazzismo benpensante è pericoloso, beatifica lo straniero lasciando il campo libero a tutte le derive”. Adesso un rapporto statale sembra confermare queste analisi pessimistiche. E la famosa Francia “una e indivisibile” scopre di avere in seno un grave problema di assimilazione a cui la laicità coatta non è capace di far fronte. Materie come l’islam, la recente storia del medio oriente, la guerra francese in Algeria, gli interventi americani in Iraq e Afghanistan, in modo ancora più eclatante lo studio dell’Olocausto, sono sottaciuti e deliberatamente evitati nelle scuole pubbliche. “Gli insegnanti scoprono regolarmente che i genitori musulmani non vogliono che i propri figli imparino qualcosa sulla cristianità”, recita il rapporto. “L’antisemitismo emerge durante le lezioni sull’Olocausto”. E’ persino successo che una professoressa di storia venisse sospesa per “eccessiva attenzione dedicata all’Olocausto”, una forma di “lavaggio del cervello” secondo l’orwelliana commissione scolastica di Metz-Nancy. Tanti i casi simili a quello di Grenoble, nel collège Henri-Vallon, dove la professoressa Nicole Bergeras ha dovuto affrontare la dura contestazione dei suoi allievi maghrebini quando ha proposto la lettura di “Si c’est un homme” di Primo Levi: “Non vogliamo leggere storie di ebrei”.

Scajola, Fini, la magistratura e le dimissioni


Claudio Scajola si accomodi, prego. Può riprendersi la sua poltrona di ministro quando e come vuole. Se vale il trattamento di riguardo, un vero e proprio trattamento ad personam, riservato al presidente della Camera, Gianfranco Fini per quella «sciocchezzuola», come ama ripetere sorridendo, della casetta di An finita, oramai sissabenecome al cognatino Tulliani, allora a maggior ragione, il ragionamento deve valere almeno per un'altra persona. Ad esempio per chi, come l'ex titolare dello Sviluppo economico, si è trovato investito dal polverone mediatico, sollevatosi a proposito del famoso appartamento con vista sul Colosseo, e non ha aspettato un minuto di più, dopo aver dato una sbirciatina ai titoli dei giornali (primo fra tutti il nostro) a dimettersi.

Già, perché la prima, robusta, sostanziale differenza tra Fini e Scajola, due politici di lunga navigazione, che dovrebbero essere, glielo riconosciamo, abituati alle scuffiate, è che il primo è rimasto aggrappato, anzi, strenuamente inchiodato, alla vellutata poltrona di Montecitorio, mentre il secondo ha immantinente fatto i bagagli, anche se avrebbe potuto restare al suo posto, non avendo commesso alcun reato, non avendo ricevuto neppure alcun avviso di garanzia. Già, perché la seconda, robusta, sostanziale differenza è proprio questa: Scajola non ha ricevuto alcun avviso di garanzia, mentre Gianfranco Fini è invece indagato per truffa aggravata a proposito della famosa «sciocchezzuola» dell'appartamento di Montecarlo.

E sono mesi che è indagato, anche se nessuno lo sapeva. Perché la cauta Procura di Roma, limitandosi a ossequiare scrupolosamente la legge (quindi seguendo una prassi che ha qualcosa di veramente anomalo, in un'Italia dove le Procure spifferano tutto, appena possono, ai cronisti) ha aspettato di annunciare che il presidente della Camera era indagato, contemporaneamente alla richiesta di archiviazione dell'intera, surreale vicenda. Richiesta di archiviazione che, peraltro, è sempre utile precisarlo, non smentisce una riga che è una riga dell'inchiesta pubblicata dal Giornale. Perché? Perché nelle carte dell'inchiesta si legge che sì il prezzo di vendita non risultava equo ma che andrebbe valutato il costo della ristrutturazione. E, per quest'altro aspetto, i pm preferiscono non entrare nel merito rimandando, si legge sempre nelle stesse carte, la valutazione del danno a una eventuale causa civile.

Assistere a una simile, encomiabile camminata sulle uova è un esercizio che può aiutare a far riflettere anche i più distratti fra noi. Se, infatti, andiamo un po' indietro con la memoria, pur tralasciando quelle migliaia di sussurri e venticelli che, appena usciti tempestivamente dai palazzi di giustizia, sono subito rimbombati come terremoti se l'indagato o il neanche indagato era ed è il premier Berlusconi, non ci risulta che prima d'ora un pm abbia avuto sì tanto rispetto per la privacy di un personaggio politico o pubblico che fosse.

Tutto ciò che cosa ci spinge a pensare? Nulla di moralmente illecito, beninteso. Ma solo che, evidentemente, Gianfranco Fini, che sia considerato negli abiti di Gianfranco Fini o in quelli del presidente della Camera, poco importa, può contare comunque sul rispetto e sulla aprioristica fiducia delle Procure. In ossequio, dunque, a quella famosa presunzione d'innocenza che, in tutti quegli sputtanamenti giornalistici costruiti sui soffietti di tante solerti Procure, non è mai stata particolarmente ossequiata in questo Bel Paese.

Tenete conto poi che i pm sono stati così prudenti e rispettosi della privacy della famiglia Fini, nel valutare l'affaire Montecarlo, da non aver mai sentito il bisogno di interrogare i protagonisti della vicenda. Né la compagna, Elisabetta Tulliani (che non ci pare abbia avuto un ruolo secondario nella gestione di quell'appartamento), né il cognato, che secondo lo stesso Fini potrebbe essere il vero proprietario della casa. Né, ancora, quei potenziali acquirenti della casetta monegasca che avevano dichiarato di aver offerto molto di più dei trecentomila pagati dalla off-shore, respinti al mittente nonostante fossero stati più generosi.

Se il ragionamento che abbiamo fatto fin qui fila, e in tutta onestà ci sembra che non faccia una grinza, allora il cerchio delle diverse credibilità, si può chiudere esattamente nel punto da dove avevamo cominciato a tracciarlo. Nonostante mille opacità, che restano in una vicenda che cristallina non è mai stata fin dall'inizio. Nonostante il fatto che la Procura abbia deciso di indagarlo, nonostante il mosaico dell'affaire Montecarlo sia stato ricostruito in ogni tassello, Gianfry ha deciso di non mollare. Di starsene lì, al suo posto. Imperturbabile. Mentre l'ingenuotto, sensibile e un po' d'antan, ministro Claudio Scajola, ha aperto il libro dei principi comportamentali del politico e dell'uomo retto, si è riletto il significato di parole come etica e morale e ha deciso di lasciare il suo scranno. Perché, in fondo, l'unico modo per liberarsi dalle responsabilità sta nell'assolverle. E non nell'autoassolversi. C'è una bella differenza, no?

mercoledì 27 ottobre 2010

La quadratura del cerchio...


Roma - «Se non riusciremo ad avere soddisfazione sul penale, procederemo per il risarcimento in sede civile contro Gianfranco Fini». Non ha nessuna intenzione di arrendersi Francesco Storace, alquanto scioccato (e scocciato) per la notizia della richiesta di archiviazione della Procura di Roma per l’inchiesta sulla casa di boulevard Princesse Charlotte a Montecarlo. Al leader della Destra, esponente di An all’epoca della cessione dell’appartamento monegasco, la notizia ha rovinato la giornata. E ora snocciola tutto quello che non gli torna di questa strana vicenda. A partire dalla insolita tempistica della vicenda giudiziaria, non in linea con le bibliche abitudini italiane. «Qualsiasi cittadino attende anni per vedere la fine delle proprie odissee giudiziarie, Fini in una mesata viene iscritto nel registro degli indagati per truffa, poi si decide che va assolto. Per lui hanno inventato il processo breve. Anzi, brevissimo».

Storace, non è questa l’unica stranezza di questa vicenda. «Certo. Ad esempio, perché se io o lei veniamo iscritti sul registro degli indagati si viene a sapere dopo un minuto mentre per il presidente della Camera si è saputo soltanto ieri, contestualmente alla richiesta di archiviazione? Nei confronti di Fini c’è stata a dir poco una cautela incredibile. Quella che non è stata certo riservata a Berlusconi in tante altre occasioni».

Ma lei non si arrende mica, vero? «No, guardi, questa vicenda non può finire in una burletta. Ho già sentito Buonasorte e D’Andrea (Roberto Buonasorte e Marco D’Andrea, i due esponenti della Destra che il 30 luglio scorso presentarono un esposto ai carabinieri costringendo la Procura di Roma ad aprire un’inchiesta per truffa aggravata sul caso, ndr) per decidere le nostre prossime mosse. Loro si avvarranno del diritto di fare opposizione dinnanzi al Gip contro questa richiesta di archiviazione».

E poi ci sarà il processo civile. Lo dice la stessa Procura di Roma: «Qualsivoglia doglianza sulla vendita a prezzo inferiore non compete al giudice penale ed è eventualmente azionabile nella competente sede civile».

Più chiaro di così... «È ovvio che ci muoveremo. Ma prima vediamo come finisce sul penale. Non ci dimentichiamo che per il momento si tratta della richiesta di una parte. Da parte nostra verranno prodotte ulteriori documentazioni. E poi ora un piccolo vantaggio c’è anche per noi».

Quale? «Potremo vedere le carte dell’indagine e verificare come questa è stata condotta».

Ha dei dubbi? «Guardi, voglio rispettare i magistrati e quindi non dirò quello che penso».

Non lo dica, non lo dica. Parliamo piuttosto di quello che dicono i giudici. Che ci sia del marcio nell’alienazione dell’immobile monegasco lo ammettono anche loro. «Sicuramente hanno scritto che al momento della vendita l’appartamento valeva tre volte di più di quando era stata ereditata. Ma hanno scritto anche che quell’appartamento era fatiscente. Questo lo dicono loro. A noi risulta che non ci sia nemmeno una foto. E poi c’è la domanda delle domande».

Quale? «Perché un partito politico decide di rivolgersi a una società off-shore per alienare un bene di sua proprietà? Noi avevamo chiesto alla Procura di Roma di verificare la tracciabilità dei 300mila euro pagati dall’acquirente. Sarà stato fatto? Verificheremo. Intanto io mi candido».

Oddio, a fare cosa? «Mi candido a comprare una casa a Montecarlo allo stesso prezzo a cui l’ha venduta An. Hai visto mai?».

L'ennesimo scandalo... bufala?


Milano - I racconti della ragazza «potrebbero essere un tentativo di ricatto, una trappola, una storia inquinata». Anche Il Fatto Quotidiano, che ieri lancia in prima pagina la notizia, lo fa con cautela, come a prendere le distanze da una vicenda ancora ampiamente oscura. Ma il risultato non cambia: nel giro di una manciata di minuti, ieri mattina, parte in grande stile il tam tam intorno al nuovo, infamante atto d’accusa contro il premier Silvio Berlusconi. La Procura di Milano, scrive Il Fatto, sta «vagliando» il racconto di una giovane marocchina già appartenente «al giro di Lele Mora» che afferma di avere avuto uno o più «contatti ravvicinati» con Silvio Berlusconi. Si ipotizza, insomma, una sorta di caso D’Addario-bis, aggravato dalla verde età della protagonista, che non ha ancora compiuto i diciott’anni.

Come si può immaginare, l’anticipazione del quotidiano diretto da Antonio Padellaro manda ieri mattina in fibrillazione le redazioni di tutti i media concorrenti. I cronisti giudiziari milanesi vanno in corteo a bussare alla porta di Edmondo Bruti Liberati (nella foto), procuratore della Repubblica. Ed è il capo della Procura milanese a pronunciare quella che suona come una sconfessione piena dello scoop: «In questa procura non ci occupiamo di pettegolezzi. Non esiste alcuna denuncia di questo tipo». Fine del caso, dunque? Non esattamente. A fare capire che la faccenda non è destinata ad esaurirsi tanto rapidamente non c’è solo la circostanza che Il Fatto annunci per oggi una nuova puntata. Ci sono anche una serie di riscontri arrivati ieri intorno a voci che circolavano da settimane negli ambienti giornalistici e politici. Sono riscontri che dicono che una indagine effettivamente c’è, nonostante la smentita di Bruti Liberati. Ma dicono anche che il racconto della ragazza è stato già smentito in più punti dalle indagini che la Procura milanese sta compiendo intorno alla spinosa vicenda.

Su un punto, la smentita di Bruti Liberati è impeccabile: non esiste una denuncia. La ragazza non ha sporto querela nei confronti del presidente del Consiglio. Però ha messo a verbale il nome del Cavaliere in più di un interrogatorio. Da quegli interrogatori è scaturito un fascicolo di inchiesta affidato al pubblico ministero Antonio Sangermano, fino a pochi mesi fa assegnato al pool specializzato in reati sessuali, coordinato dal procuratore aggiunto Pietro Forno. Si tratterebbe di un fascicolo del cosiddetto «modello 45», dove la Procura colloca le vicende in cui non è ancora configurabile un reato. Fascicoli esplorativi, insomma, senza indagati. Secondo indiscrezioni attendibili, tutto nasce (almeno in apparenza) per caso: la giovane araba viene fermata per un controllo e risulta priva del permesso di soggiorno. A quel punto, gioca il tutto per tutto: «Guardate che conosco Berlusconi».

Sul momento sembra una boutade. Ma la marocchina insiste. Racconta di essere stata a casa di Silvio Berlusconi ad Arcore insieme ad altre ragazze. E aggiunge una serie di dettagli su quanto sarebbe poi avvenuto nella residenza del premier. Il Giornale non sa quali siano questi dettagli. Ma una cosa è certa: dopo queste dichiarazioni, la forza di polizia che sta interrogando la giovane si ferma, e trasmette il tutto alla Procura milanese. Qui Bruti Liberati decide di procedere, anche se con grande cautela. Si consulta con il suo vice Pietro Forno, e il fascicolo viene affidato a Sangermano, uno specialista di reati a sfondo sessuale. La ragazza viene interrogata molte volte. Fornisce nuovi dettagli, fa molti nomi. E qua iniziano i problemi: perché buona parte delle notizie fornite dalla giovane non trovano conferma, e anzi vengono smentite dagli accertamenti della Procura. I magistrati hanno la sensazione di trovarsi di fronte ad una testimone ampiamente inattendibile e inutilizzabile, perché anche i dettagli veri o verosimili vengono pesantemente indeboliti da quelli rivelatisi falsi. «Non esiste una inchiesta e non è mai esistita», ribadiscono in serata fonti della Procura milanese. Eppure il fascicolo, in qualunque modo lo si voglia chiamare, esiste. Ed è per le dichiarazioni raccolte in quel fascicolo che la traballante superteste ha ottenuto di essere ospitata in una residenza «protetta», in attesa che la Procura decida cosa fare.

martedì 26 ottobre 2010

Magistratura

Che volevo dire? Ah, si, il presidente della camera un paio di giorni fa disse che la legge deve essere uguale per tutti. Solo che per lui è più uguale che per gli altri... era persino indagato e l'italia non lo sapeva (o magari non lo sapevo io)... quando invece l'italia sa tutto di tutti e lui che diceva: "fuori gli indagati dal parlamento", riferendosi ovviamente al suo nemico conclamato, il dittatore Silvio... ma lui che ci fa allora ancora in parlamento? Bella domanda, neh? Guardacaso ha trovato magistrati solerti e silenziosi. Chi ricorda il caso-Unipol e la frase di Fassino: "abbiamo una banca!". Bhe, io lo ricordo. Ora, i magistrati (non quelli solerti e silenziosi di Fini), indagano Paolo Berlusconi (fratello del dittatore Silvio) perchè ha avuto le intercettazioni un pò prima degli altri. In conclusione: buttiamo a mare il parlamento e tutti i suoi organi e facciamo decidere i giudici. Chè tanto è da un bel pò che decidono.

Fini e la magistratura veloce...


MILANO - «Nessuna truffa». I pm di Roma che si sono occupati dell'inchiesta sulla casa di Montecarlo hanno chiesto l'archivazione del procedimento penale. Il procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara, e l'aggiunto Pierfilippo Laviani hanno accertato l'insussitenza di azioni fraudolente in merito alla vendita di un appartamento di proprietà di Alleanza Nazionale a una società offshore, per cui erano indagati sia il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sia l'ex tesoriere di An Francesco Pontone. Lo riferiscono fonti giudiziarie. Adesso sarà il gip a decidere nelle prossime settimane se archiviare o meno l'inchiesta.

INDAGATI - I pm, ascoltati testimoni e studiate le carte giunte dal Principato di Monaco, ritengono che non ci sia stata alcuna frode nella vendita della casa, precedentemente donata all'ex partito di Fini da una sostenitrice, la nobildonna Anna Maria Colleoni. L'appartamento in questione è occupato attualmente da Giancarlo Tulliani, fratello della compagna di Fini, Elisabetta Tulliani. La notizia che Fini e Pontone fossero stati iscritti sul registro degli indagati non era mai stata diffusa in precedenza. L'inchiesta era nata dalla denuncia di alcuni esponenti del partito La Destra di Francesco Storace, nella quale si chiedeva di accertare se l'immobile ereditato dalla contessa Annamaria Colleoni fosse stato oggetto di una svendita.

SEDE CIVILE - «Qualsivoglia doglianza sulla vendita a prezzo inferiore - sostengono i pm - non compete al giudice penale ed è eventualmente azionabile nella competente sede civile». Il valore dell'immobile, secondo quanto comunicato dal Principato di Monaco, era triplicato al momento dell'alienazione rispetto a quello dichiarato a fini successori, 273mila euro. «Tale valutazione - si spiega - della Chambre Immobiliere Monegasque, è stata effettuata in astratto, senza tener conto delle condizioni concrete del bene, descritto dai testi come fatiscente».

LE REAZIONI - «Sono contento e soddisfatto - commenta il senatore di Futuro e libertà, Pontone - in questo modo è stato dimostrato che si tratta di un'azione sballata presa contro il presidente della Camera, Gianfranco Fini, e contro il sottoscritto». Il vicepresidente dei deputati di Futuro e Libertà, Benedetto Della Vedova, esulta invece sul proprio profilo di Facebook: «E andiamo avanti!». Di tenore diverso la reazione di Storace: «Il processo breve, brevissimo si applica solo a Gianfranco Fini».

Nomadi


MILANO - Tratta di persone, riduzione in schiavitù e violenza sessuale nei confronti di una ragazzina di 15 anni kosovara: queste le pesantissime accuse nei confronti di tre donne e due uomini di etnia rom, tutti imparentati tra loro, che sono stati arrestati dalla polizia nel campo nomadi di Coltano (Pisa).

RAPITA - La giovanissima era stata rapita dal clan famigliare per darla in sposa al proprio primogenito 15enne dopo che i genitori della ragazzina avevano accettato il matrimonio in cambio di denaro e della promessa di una vita migliore, ma a patto che questo venisse celebrato al compimento della maggiore età dei due giovanissimi. Dopo un viaggio allucinante, narcotizzata dopo averle fatto tingere i capelli e con delle lenti a contatto colorate perché assomigliasse alla foto del passaporto falso con cui veniva fatta espatriare, gli zii del ragazzino hanno costretto la 15enne ad indossare un abito da sposa nella toilette di un’area di servizio e poi l’hanno portata nel campo nomadi pisano dove è stato celebrato il «matrimonio».

GLI STUPRI - Nei giorni successivi la ragazza è stata costretta ad un rapporto sessuale con il suo sposino mentre gli anziani della famiglia erano appostati fuori dalla baracca in attesa che l’atto, a cui la giovanissima non voleva sottoporsi, fosse consumato per poi esporre «in pubblico» il lenzuolo macchiato di sangue che comprovasse la perdita della verginità della ragazzina. Secondo quanto riferiscono gli investigatori della Squadra Mobile pisana, da maggio la ragazzina è stata schiavizzata e segregata dalla famiglia dello sposo, che non le permetteva di lasciare il campo. L’indagine è partita dalla denuncia del padre della 15enne che, dal Kosovo, è riuscito con un interprete a parlare con la Questura pisana, dopo aver ricevuto una telefonata disperata della figlia che era riuscita a prendere il telefonino dello zio.

lunedì 25 ottobre 2010

Tra cavilli e cavillini... viva la legalità


Aumentano le tutele per i minori figli di immigrati irregolari a rischio di espulsione. La Corte di Cassazione, nel massimo consesso delle Sezioni Unite, ha deciso che non si possono mandare via gli stranieri, anche se hanno commesso reati, nel caso in cui il loro allontanamento dall'Italia, tramite il rimpatrio, abbia riflessi negativi sul generale equilibrio psico-fisico dei loro bambini. Con questa decisione la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una signora africana, madre di tre figli residenti a Perugia, condannata per sfruttamento della prostituzione e raggiunta da foglio di via. La signora si era rivolta alla Suprema Corte dopo una decisione della Corte d'Appello di Perugia del 2009.

Pauline N. A. ha protestato e ha fatto presente di avere tre figli ai quali il suo rimpatrio avrebbe nuociuto. Intanto proprio per il "comportamento poco attento della madre" i ragazzini erano stati dati in affido part-time a una famiglia umbra fin dal 2003. La Cassazione, con la sentenza numero 21799, ha stabilito che i "gravi motivi" che, in base alle norme sull'immigrazione, consentono la temporanea autorizzazione del genitore con foglio di via, a rimanere in Italia, debbono essere interpretati in maniera elastica. Per i giudici non devono essere applicati solo alle "situazioni di emergenza o alle circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla salute" del minore, ma a un ventaglio molto più ampio di circostanze.

Fra i "gravi motivi" vanno ricomprese tutte le circostanze in grado di produrre "qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile e obiettivamente grave che in considerazione dell'età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico derivi o deriverà certamente al minore dall'allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall'ambiente in cui è cresciuto".

Secondo la Cassazione si tratta di "situazioni di per sè non di lunga o indeterminabile durata, e non aventi tendenziale stabilità e che pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che necessariamente trascendono il normale e comprensibile disagio del rimpatrio suo o del suo familiare". Adesso i giudici di Perugia dovranno meglio riconsiderare se sussistano le condizioni per convalidare l'espulsione di Pauline "esaminando i rapporti dei tre figli con la madre e il pregiudizio che agli stessi potrebbe derivare dall'espulsione della donna".

10 piccoli nomadi... (e i suggerimenti del pd)


MILANO - Dieci rom del campo milanese di via Triboniano hanno presentato un ricorso, in sede civile, contro il sindaco di Milano Letizia Moratti, il prefetto Gian Valerio Lombardi e il ministro dell'Interno Roberto Maroni: chiedono che vengano loro assegnate le case popolari in adempimento a quei «progetti di autonomia abitativa» che in settembre erano stati prima sottoscritti dall'amministrazione comunale e dalla Prefettura e poi «bloccati». Gli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, che hanno presentato il ricorso al Tribunale di Milano, fanno riferimento all'accordo siglato nei mesi scorsi dal Comune e dalla Prefettura, con cui sono state individuate «le famiglie rom destinatarie degli alloggi Aler (di edilizia popolare, ndr)» con «l'assegnazione nominativa a famiglie attualmente residenti nel campo Triboniano», che dovrebbe essere sgomberato nelle prossime settimane. I nomadi nel ricorso chiamano in causa anche il ministro Maroni e in particolare ciò che il ministro dichiarò il 27 settembre scorso: «Nella conferenza stampa - spiegano i legali dei rom - Maroni affermò che i ricorrenti (come gli altri destinatari dei 25 alloggi, individuati da Casa della carità, Ceas e Consorzio Farsi Prossimo) non avrebbero potuto acquisire gli alloggi indicati nei rispettivi progetti, bensì altri, che sarebbero stati reperiti facendo leva "sul gran cuore di Milano"».

«COMPORTAMENTO DISCRIMINATORIO» - A un mese da quelle affermazioni, si legge ancora nel ricorso, i nomadi «non hanno potuto fare ingresso negli alloggi loro assegnati» e il prefetto «non ha più convocato alcun abitante del campo di via Triboniano per la sottoscrizione dei progetti di autonomia». Nel frattempo, spiegano ancora i legali, «amministratori e politici hanno ripetutamente dichiarato alla stampa che ai rom non sarebbe mai stata data alcuna casa popolare». Per questo i nomadi chiedono che il Tribunale accerti e dichiari «il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalle amministrazioni convenute» e ordini «di dare pieno e esatto adempimento» ai progetti di alloggio nelle case popolari, «assumendo ogni necessario provvedimento affinché ai ricorrenti sia consentito prendere possesso degli alloggi stessi e sospendendo, sino alla materiale assegnazione dei predetti alloggi, i provvedimenti di allontanamento o sgombero dal campo nomadi ove i ricorrenti attualmente risiedono; pagando ai ricorrenti gli importi indicati nei progetti e infine garantendo ai "referenti del presidio sociale" che hanno sottoscritto detti progetti il rimborso delle spese necessarie per la ristrutturazione degli alloggi».

«COSE GIUSTE» - Alle dieci famiglie rom è arrivato il sostegno di don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità: «Stanno affermando cose giuste», ha detto il sacerdote. «Mi auguro che questo atto possa sbloccare la situazione. Sono ancora convinto che si possa continuare nel cammino che avevamo iniziato e che mira a sistemare non solo queste, ma anche un altro centinaio di famiglie». A dicembre scadono i poteri straordinari conferiti dal Governo al Prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi. «Entro quella data bisogna anche destinare tutte le risorse previste per l'accompagnamento sociale, abitativo e lavorativo dei rom - ha aggiunto don Colmegna -. Per questo spero che il ricorso diventi uno stimolo ad accelerare il percorso di superamento dei campi».

«SGOMBERO IN TEMPI BREVI» - Il ricorso dimostra «come non vi sia neppure un briciolo di riconoscenza nei confronti di quelle istituzioni che hanno aperto e mantenuto il campo, offrendo ai nomadi stessi l'occasione per integrarsi realmente nel tessuto sociale milanese». È quanto sostiene il presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Davide Boni (Lega), secondo cui «la notizia che vede i nomadi di via Triboniano schierati ora anche legalmente contro le istituzioni si commenta da sè». Secondo il politico lombardo «ancora una volta viene strumentalizzata una vicenda che avrebbe dovuto concludersi già molto tempo fa, con lo sgombero definitivo del campo stesso». Per tale motivo, a maggior ragione «dinanzi a questo ennesimo atto», il presidente dell'assemblea lombarda auspica «che lo sgombero del campo di via Triboniano venga effettuato nel più breve tempo possibile».

«DENUNCIA PARADOSSALE» - «Sarebbe davvero paradossale se la magistratura accogliesse le istanze dei nomadi - è il commento di Romano la Russa, assessore regionale lombardo alla Sicurezza, Protezione civile e Polizia locale -. Prima le autorità competenti verifichino che questi signori siano in regola con la legge e il pagamento delle tasse, non abbiano condanne pendenti e abbiano il permesso di soggiorno in regola. Poi, eventualmente, potranno fare la loro denuncia». «Assegnare case a stranieri - continua La Russa - solo perchè rom, prima dei nostri connazionali, questa sì che sarebbe una vera e propria discriminazione, con il rischio di dar vita a malumori forti che potrebbero poi sfociare in disordini sociali difficilmente controllabili». L'esponente del Pdl conclude sottolineando che non la Lombardia non si farà «intimidire da denunce di rom e dalle "predicozze ricatto-fintomoraliste" di Don Colmegna, nè tantomeno farci dettare dalle loro esigenze l'agenda politica».

Invece, togliere le case popolari agli italiani che ne hanno bisogno e che non hanno abbastanza soldi (diversamente dai nomadi che, molto spesso, hanno conti correnti ultramilionari) per pagarne una propria, no, non è discriminazione.

domenica 24 ottobre 2010

Avanti un altro, col disco rotto


FIRENZE - «Ci eravamo smarriti e ci siamo ritrovati. Uno smarrimento che parla di una sinistra in stato confusionale e che deve cercare di ritrovarsi, ma non per tornare a un luogo antico». Nichi Vendola traccia la rotta durante il suo intervento conclusivo al congresso fondativo di "Sinistra ecologia e libertà" di Firenze. «Sbaglieremmo molto - dichiara Vendola - a fare un'operazione di restaurazione o una sommatoria di frammenti pensando che la sommatoria possa dare una forza che è invece un fatto politico e non algebrico».

GOVERNO TECNICO - Il leader di Sel si rivolge prima di tutto al Partito democratico, interlocutore privilegiato: «Spero di avere qualche risposta chiara da Bersani a cui mi rivolgo con stima e amicizia. Noi un governo di scopo per cambiare la legge elettorale lo consideriamo un fatto positivo, un governo che ci accompagni verso la liberazione dal berlusconismo, ma non ci può essere spazio per riforme economiche bipartisan». Vendola conferma che il colloquio di qualche settimana fa con il segretario del Pd «è stato buono, ha aperto porte e finestre delle nostre case alla speranza» ma non si può seguire il tremontismo perché, ad esempio, «basta guardare cosa è successo con Padoa Schioppa, un suo adepto»: «Quando uno cerca le ragioni delle nostre sconfitte eccole servite lì davanti...».

PULSIONI ANTICLERICALI - Vendola, dopo aver dichiarato che «Aldo Moro avrebbe compreso le ragioni della piazza Fiom» e che «il patto tra produttori è un inganno, il conflitto è incancellabile» afferma anche che occorre dialogare con il mondo cattolico, rifuggendo l'anticlericalismo. Il governatore della Puglia ricorda che «la Dc è stata un garante della laicità dello Stato. Tuttavia, la fine dell'unità politica dei cattolici ha generato un'inseminazione di clericalismo in tutta la vita politica. Guai - avverte il leader di Sel - se a questo rispondessimo con pulsioni anticlericali, dobbiamo invece rilanciare dialoghi, aprire varchi. Penso a come Gramsci irrideva a un certo anticlericalismno risorgimentale», con «un rispetto profondo». «La cosa peggiore è chiudere la discussione prima che cominci. Io voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio parlare anche con la Chiesa - aggiunge il governatore pugliese -. Voglio parlare di un percorso giuridico per persone dello stesso sesso che si amano. Lo dico agli amici del Family Day. Cosa vi ha ferito e vi ferisce, due persone dello stesso sesso che si amano, o le politiche liberiste che hanno impoverito la famiglia?».

SINISTRA UNITA - Vendola, che sarà poi eletto presidente di "Sinistra Ecologia Libertà" all'unanimità, conclude il suo intervento con un invito: «Basta con la sinistra innamorata dell'estetica del naufragio», la sinistra deve tornare a vincere «unita e per cambiare l'Italia».«Il nostro popolo - aggiunge - vuole che stiamo insieme, ma l'unità deve avere come obiettivo il cambiamento del modello sociale e di sviluppo dell'Italia».

Dieci motivi per...


«È davvero formidabile la capacità della destra italiana di moltiplicare i suoi nemici». Formidabile, e di cosa stiamo parlando? Dunque, secondo Pierluigi Battista, che in genere leggo sempre volentieri, «la destra» ha «uno straordinario impulso masochista nel regalare alla sinistra Roberto Saviano, che di sinistra non è». Così ieri, per infiocchettare il regalo, Battista ha regalato alla destra una bella torta con ciliegina molto istruttiva e che vorrei ricambiare con dieci candeline.

1) Sono costretto a precisare che, per quanto mi riguarda, da scrittore né di destra né di sinistra (faccio bellissimi disegnini porno sulle schede elettorali da anni), ogni mia critica motivata a Saviano mi ha portato centinaia di insulti che se Battista vuole gli giro via mail, tra i quali il classico, che io lo attacco «per invidia». Se la destra usasse lo stesso argomento in sede politica si potrebbe disinnescare ogni critica a Berlusconi dicendo che chi la muove è invidioso dei suoi soldi, a cominciare dalla Gabanelli, perché vorrebbe le ville a Antigua anche lei.

2) Mi sarebbe piaciuto che Battista avesse fatto dei nomi, e non solo quello di Roberto Saviano rapportato a un’entità generica: la destra. Chi? Può fare qualche nome? Il bello è che quelli come Battista parlano sempre da un pulpito super partes, gli altri sono la destra, la sinistra. Intanto ricordo a Battista i saggisti o gli scrittori che hanno criticato Saviano nel merito del suo unico romanzo (sebbene, intervistato a Annozero, l’autore nomini pomposamente «i miei libri», e continua a sfuggirmi l’opera di Saviano, il cui valore poggia su meriti esclusivamente extraletterari). Per esempio Aldo Busi, non certo uno scrittore di destra, ha definito Gomorra «un romanzo di cassetta», e nessuno ha fiatato, mentre le critiche del sociologo di sinistra Alessandro Dal Lago, identiche alle mie ma con due anni di ritardo, sono state riprese dal Corriere della Sera, dove lo stesso Battista commentava elegantemente che criticare Saviano deve essere legittimo e non un tabù.

3) Saviano non è di sinistra, è vero, lo ha dichiarato proprio Saviano da Michele Santoro: «Io parlo anche agli elettori di destra, per aprirgli gli occhi quando vanno a votare». Sono gli elettori di destra imbecilli che votano a occhi chiusi senza sapere cosa votano, aspettano l’illuminazione di Saviano pagato con i loro soldi sul servizio pubblico. Dovendosene oltretutto, il telespettatore di destra o di sinistra, sentirsene rassicurato, perché «essere pagati è la garanzia di poter fare bene il proprio lavoro», e con meno di duecentomila euro effettivamente si lavora male per la causa comune, ecco perché anche un operaio paga il canone Rai.

4) Che poi Saviano sia di destra o di sinistra non capisco cosa cambi, anzi per me potrebbe anche essere fascista, vista la criminalizzazione che Saviano fa del libero mercato, al quale rende contigua, consequenziale e consustanziale l’esistenza della camorra, basta leggere Gomorra o i suoi articoli su Repubblica. Con Mussolini, in effetti, la mafia se la passava male.

5) Secondo Battista la destra non sa che Saviano è stato «fatto oggetto dei peggiori insulti sui siti e sui blog anti-imperialisti» per aver espresso solidarietà a Israele, dando quindi per scontato che la sinistra sia anti-israeliana, pur elogiando i viaggi di Fini in Israele come una conversione post fascista.

6) Secondo Battista la destra «è una curva che vede comunisti dappertutto» e Saviano non sarebbe di sinistra perché è riuscito a convincere i lettori «ad acquistare I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, uno dei più sconvolgenti capi d’accusa contro i Gulag e “le atrocità del comunismo” (parole di Saviano) su cui “è calato il silenzio da troppo tempo” (parole di Saviano)». Quindi secondo Battista la sinistra italiana, oltre a essere antisemita, ha bisogno di essere convinta perfino per leggere Salamov, in altri termini la sinistra è ancora sovietica (parola di Battista, non di Berlusconi).

7) A proposito di libero mercato, scrive Battista, Saviano viene considerato «un avversario così spregevole da pretendere addirittura di essere pagato per una trasmissione televisiva (ma come, non si era detto che il mercato non doveva essere demonizzato?)». Appunto, ma chi lo demonizza? Io? La destra? O Saviano?

8) Secondo Battista «gli scrittori non sopportano che un loro collega vada troppo in televisione, perché andare troppo in televisione fa troppo “berlusconiano”». Anche qui, se non fa i nomi, parli per sé, per quanto mi riguarda nell’ultimo mese non ho fatto che rifiutare inviti televisivi perché sono troppo occupato a scrivere, e oltretutto, al contrario di quanto crede Battista, uno scrittore non ha colleghi, e se li ha non è uno scrittore ma un impiegato.

9) Il sottoscritto, è noto, ha attaccato negli ultimi anni, su Libero e sul Giornale, in nome della letteratura e in opposizione alla logica delle classifiche di vendita e del mercato quando si tratta di valore artistico, molti colleghi di Saviano, da Niccolò Ammaniti a Wu Ming a Alessandro Piperno, quest’ultimo non certo un’icona della sinistra, piuttosto un’icona del Corriere della Sera, secondo il quale sarebbe «il Proust italiano». Poiché sono autori Mondadori, l’anno scorso dopo essere stato accolto con grandi onori a Segrate, sono stato messo gentilmente alla porta «per quello che hai scritto su Saviano», con la motivazione che Saviano è una grossa fetta del fatturato di Segrate e il mio nome avrebbe messo i dirigenti in difficoltà. Se Battista vuole, anche qui, gli fornisco privatamente i dettagli, quando ho raccontato l’episodio su Dagospia non mi pare gliene fregasse granché, la libertà di stampa vale solo per chi già ce l’ha. Al dirigente ho detto «Capisco», ho preso armi e bagagli e me ne sono andato alla Newton Compton, e questo mentre Saviano, su Repubblica, firmava appelli sulla libertà di stampa, copyright Agenzia Santachiara, in prima pagina sopra la pubblicità di Gomorra, copyright Mondadori, e tra poco su Rai Tre, copyright Endemol.

10) È curioso perché a difesa dei duecentomila euro chiesti da Saviano, demonizzatore del libero mercato, sono arrivate perfino Norma Rangieri, direttrice del Manifesto, e Concita De Gregorio, direttrice de l’Unità, proprio in nome del libero mercato, perché l’audience, l’ascolto, il successo commerciale, sono diventati un criterio perfino sul servizio pubblico. Concita ha anche concitatamente puntualizzato che «è come per i calciatori», e a Gianluigi Paragone è stato detto che mille euro a puntata per lui sono già troppi. Se il principio è questo basterebbe mettere L’isola dei famosi contro Annozero e vedere chi vale di più, e bisognerebbe anche chiedersi quanto ascolto fanno, tradotto in copie vendute, l’Unità e Il Manifesto, e anche quanto ascolto fa l’eterno lupus in fabula, Silvio Berlusconi, tradotto in voti.

Sproloqui finiani


Mentre persiste nel silenzio sulla casa del cognato a Montecarlo, domani Gianfranco Fini picconerà un altro dei misteri che lo circondano da quando ha deciso di mettersi in proprio. È un buco nero nel programma di Futuro e libertà quanto nei pensosi workshop della fondazione Farefuturo: si tratta del programma finiano per il Nord. L’arrivo del presidente della Camera a Milano, patria di Silvio Berlusconi e roccaforte della Lega, diraderà la nebbia che grava su un aspetto così qualificante del nuovo soggetto politico. In questi mesi Fini si è occupato soltanto del Mezzogiorno. Ha stretto un patto con quel campione di coerenza politica che risponde al nome di Raffaele Lombardo e il suo Movimento per le autonomie, partecipando alla nuova giunta-minestrone in Sicilia assieme a Pd e Udc. Ha di fatto impedito, attraverso le mosse di Adriana Poli Bortone, la vittoria del Pdl alle regionali in Puglia. I suoi nuovi colonnelli sono tutti meridionali: i capigruppo Italo Bocchino e Pasquale Viespoli vengono dalla Campania, Carmelo Briguglio, Fabio Granata e Giulia Bongiorno dalla Sicilia e pure Adolfo Urso è catanese di adozione, Baldassarri è marchigiano, Flavia Perina romana de Roma. La stella polare di Fini è la stella del Sud.

Ancora ieri il numero uno di Montecitorio ha ribadito che «la tenuta del governo dipenderà da quale riforma della giustizia verrà presentata, da quale pacchetto per il Sud verrà proposto e da come si intende applicare il federalismo fiscale». E del Nord, che cosa pensa? Qui la faccenda si complica, è un bell’indovinello. Sui grandi temi che interessano le regioni settentrionali il mutismo di Fini e dei suoi è assordante. La questione settentrionale è aperta da anni nella sinistra, ormai ridotta a governare qualche amministrazione locale di serie B, e sta per aprirsi anche nel neonato Fli. Che cos’hanno da dire i ribaltonisti siciliani, paladini del pubblico impiego e del centralismo statale, al popolo delle partite Iva? L’esordio finiano non è felicissimo: ieri ad Asolo, provincia di Treviso, feudo dell’imprenditorialità nordestina, Fini non ha trovato di meglio che proporre aumenti di tasse, come fecero Prodi e Visco. «Tassare le rendite finanziarie del 25 per cento», il doppio dell’attuale trattamento fiscale. Auguri.

Con il Nord, finora Fini ha fatto il «signor no», un ruolo che gli riesce magistralmente. Guardandosi bene dal chiarire ciò che vuole, al contrario ha picchiato duro su ciò che non vuole. Non vuole il federalismo fiscale così come è stato concepito perché rischia di «alimentare speranze di piccole patrie preunitarie» e «i costi della riforma non sono stati determinati», anche se è «una scelta irrinunciabile» e, manco a dirlo, «un’occasione soprattutto per il Sud». Non vuole che la Lega Nord mantenga il peso avuto dagli elettori, perché «la storia prima che la geografia insegna che la Padania non esiste». Non vuole che il centrodestra sia «appiattito sulle posizioni di un alleato con base regionale». Non vuole ascoltare le ragioni degli allevatori: «Non possiamo limitarci a difendere in modo sbagliato gli interessi di chi ha adottato comportamenti antieuropei nel mercato del latte». Le sue ricette sono grigie come la nebbia padana. Per realizzare il federalismo fiscale bisognerebbe «associare governatori e sindaci di tutto il Paese alla decisione su quello che si dovrà fare». Il contrasto all’immigrazione clandestina, una piaga che ha colpito soprattutto le regioni più produttive e che fino a un anno fa era un cavallo di battaglia della destra, ora «deve comprendere anche l’integrazione». L’economia va aiutata perché «bisogna tornare a crescere», ha ripetuto il leader del Fli a Mirabello. Ma in che modo? Con quali misure? Mistero fitto.

La squadra di Fini è forte nello spezzare il gioco altrui e carente nel rilancio. I problemi sociali, dal mercato del lavoro alle relazioni sindacali, «vanno affrontati con giudizio». Bisogna «fornire risposte alle categorie da ascoltare». «C’è da immaginare la condizione in cui il Paese possa tornare a crescere e produrre ricchezza da dividere», aveva detto al Foglio nell’ultima intervista prima della scissione. I temi di Futuro e libertà, nel quadro dell’antiberlusconismo di fondo, sono la cittadinanza e l’integrazione degli immigrati, la laicità dello stato e i diritti delle coppie gay, il gioco di sponda con il capo dello Stato e con la magistratura, la «green Italy» e la «green economy». Farefuturo riempie internet di contributi dai titoli incorporei: «Per ridare valore alla legalità bisogna recuperare il futuro», «Verso la nuova politica contro le oligarchie», «Rifiuti, oltre l’emergenza è tempo di decidere». Decidere che cosa, non si sa. Ma se è questo l’armamento con cui Fini tenta di conquistare il Nord, la battaglia è persa in partenza.

Sproloqui veltroniani, a volte tornano


ROMA - «Siamo stati gli italiani che andavano a Firenze per salvare le persone e i libri dall'alluvione. Era l'Italia dei ragazzi del 1966, in fondo figli dei ragazzi del 1945. Eravamo un paese generoso, altruista, solidale. Oggi siamo il paese di quelli che si fanno fotografare ad Avetrana davanti alla casa dov'è stata assassinata una ragazza di quindici anni, o di quelli che si scansano di fronte a una donna colpita a morte nella metropolitana di Roma. È accaduto sul serio questo passaggio? O questo passaggio è nel racconto dell'Italia? Il paese si è trasformato davvero, o si è trasformato il modo in cui viene descritto, narrato, in cui si selezionano le cose importanti?».

Secondo lei, Walter Veltroni? «Non ci si può stupire se oggi l'Italia, con i suoi efferati fatti di cronaca o con la povertà del suo dibattito politico, mostra un volto che a ciascuno di noi dà ansia e amarezza. Alla domanda "si può vivere senza valori?" lo spirito del tempo ha risposto sì. Invece non è vero. Non si può vivere senza valori. E non mi rassegnerò mai all'idea che gli unici valori per un paese come il nostro fossero quelli racchiusi nelle ideologie del Novecento. Un paese senza valori è un campione senza valore: una scatola vuota, un guscio di anime sostanzialmente finite, un mondo di passioni tristi, una competizione senza regole. Ed è questo che si è voluto. In tutti questi anni si è fatto un genocidio dei valori. Si è animato, per pure ragioni quantitative – i voti, l'auditel –, un paese dominato dalla paura. C'è un bellissimo libretto di Andrea Kerbarker, dedicato alle finte minacce con le quali abbiamo convissuto in questo passaggio di secolo. La vita di tutti noi è dominata dalla paura. Paura di qualsiasi cosa. Paura di malattie misteriose: talvolta riaffiorano persino pesti millenarie dal profondo della storia. Paura della tecnologia. Dello sviluppo. Della crescita. Soprattutto, paura dell'altro. Quell'altro che, quando lo vediamo in televisione, racconto del mondo globalizzato, ci fa sentire onnipotenti, ma quando si materializza davanti a noi ci spinge a considerarlo un pericolo».

La paura non è causata anche dalla crisi mondiale? «Certo, la paura è figlia anche dell'insicurezza sociale, di un mondo senza garanzie, di ragazzi che crescono avendo timore del futuro e non voglia di futuro. Forse per questo nel 1966 andavano a salvare il passato, e ora vanno a farsi fotografare nell'orrore. Questa insicurezza inevitabilmente genera un'ansia di vivere e sottrae quella voglia di conquistare il futuro che è tipico, persino biologicamente, di una generazione. Paura e insicurezza producono egoismo sociale. È il mondo del "nimby", not in my backyard: fate quel vi pare, ma lasciate perdere il mio giardino. È il paradosso della globalizzazione: da una parte la Cnn, l’I-pad, la Rete; dall'altra un mondo sempre più piccolo, in cui la vita è concentrata nel quartiere, nelle relazioni familiari, dove tutto quel che succede sembra essere un terremoto, visto che non c'è niente di grande fuori che ti faccia mettere le cose nella giusta gerarchia. Non è vero che un mondo senza speranze collettive è più libero e felice; è un mondo più violento. E quando nella storia hanno prevalso le paure - pensiamo all'avvento del nazismo -, si sono fatte strada le soluzioni più devastanti. L'idea che l’altro sia un pericolo ha sempre generato violenza, e questo contrasto tra un mondo grande che si vede in tv e da cui dipende in forma incontrollabile il tuo destino, dall’11 settembre alla crisi finanziaria, e di un mondo bonsai che è quello di un localismo egoista, figlio del rifiuto di una dimensione di relazione sociale e solidale, non può che portare alla barbarie. E persino a rischi per la democrazia».

Di chi è la colpa? Certo non solo della destra. «Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori».

La televisione come la trova? «La televisione, la Rete, Facebook sono i luoghi dove il mondo appare. Più il mondo si fa piccolo, più compare attraverso la tv. La ragazza di Avetrana che probabilmente ha contribuito a uccidere sua cugina, e che ha mentito a tutte le trasmissioni tv cui partecipava senza alcun pudore, che quando è stata portata in carcere sembra aver chiesto cos'hanno detto i tg, è il prodotto di un tempo in cui si sono spogliati gli esseri umani di altre ambizioni se non quella di apparire, di essere in tv per dimostrare di essere al mondo. Non sembri un atteggiamento del passato; ma io penso che una società senza pedagogia sia una società morta. Che sia morta una società senza maestri, senza una trasmissione di esperienza, di sapere, di conoscenza che dia a ciascuno degli orizzonti di interesse, di avventura, di scoperta che oggi appaiono assolutamente limitati. Per questo penso che la tv non debba rinunciare a questa ambizione. Tutto è quantitativo nella società moderna, il Pil come l'Auditel, e nulla è qualitativo. Sono convinto che si dovrà trovare uno strumento di rilevazione dello stato di salute di una società diverso dal éil. Qualità dell’educazione, qualità dell'aria, pluralismo informativo, stabilità sociale: esistono tanti altri fattori che una società moderna dovrà trovare il modo di misurare. La stessa cosa vale per la televisione».

Si riferisce in particolare alla Rai? «Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese».

Berlusconi cita spesso l'elenco delle trasmissioni e dei personaggi tv che considera di sinistra: Santoro, Floris, Fazio, Saviano, Dandini, Gabanelli… «A me non interessa tanto il punto di vista politico. È evidente che il pluralismo politico è necessario. Mi interessa la qualità culturale. Ovviamente giudicare non spetta a me, come a nessun uomo politico. Tranne qualche eccezione, però, è evidente che non c'è più creatività. La tv è una specie di format universale: tutti i programmi sono uguali. Andiamo verso un mondo di città fatte di centri commerciali, di case piene di mobili Ikea, di tv monopolizzate da Grandi Fratelli, di strade percorse da persone con l'iPad in mano. Un mondo terribilmente uniforme e omogeneo, che tende a cancellare tutti gli elementi di diversità. Eppure la tv è il regno della diversità. Ci sono stati momenti molto belli nella storia della televisione italiana: la rete Due di Massimo Fichera, la rete Tre di Angelo Guglielmi, la rete Uno di Emanuele Milano. Ci sono stati momenti nei quali la tv pubblica ha saputo accompagnare il paese nella sua crescita, non assecondarlo nei suoi difetti. Per questo penso che la Rai abbia bisogno di un profondo, radicale cambiamento, probabilmente persino nei meccanismi di finanziamento».

Pensa alla rinuncia alla pubblicità? «Con una normativa antitrust che riguardi il privato e regoli il conflitto di interessi come si fa in ogni società liberale, si può pensare a un canone esigibile attraverso la bolletta elettrica, in modo da stanare gli evasori. A quel punto il servizio pubblico dovrebbe essere liberato dal dominio dell'Auditel, rimettendo in circolo risorse pubblicitarie, a condizione che non vadano all'oligopolista privato e cioè Berlusconi. Noi abbiamo bisogno che ci sia più tv, la più diversa possibile; che la Rai torni a produrre e creare, non solo ad acquistare format degli altri. Tutto questo sarà possibile solo se la Rai riuscirà a liberarsi dal dominio dei partiti».

Ma anche la sinistra ha lottizzato la Rai. «Da anni sostengo che occorre nominare un direttore generale, il cui mandato sia a cavallo di due legislature e che abbia pieni poteri. Se oggi al vertice ci fossero Franco Bernabé o Enrico Bondi, avendo al fianco persone con una competenza specifica sul prodotto, io penso che la Rai uscirebbe dai guai imbarazzanti in cui si trova oggi».

Un "governatore" della Rai? «Non certo una figura autocratica; una persona che senta di dover rispondere non a chi l'ha momentaneamente nominato, ma al paese. E che abbia una missione: far crescere la qualità della vita culturale italiana. Purtroppo questo paese è dominato dal passato. E il passato è pieno di buchi. Cercare di capirlo è doveroso e affascinante; ma procura anche angoscia il pensiero che siano stati condannati solo ora i responsabili della strage di piazza della Loggia a Brescia, che è avvenuta nel 1974. Noi ci stiamo occupando delle stragi del '92 e del '93, un momento cruciale della recente storia italiana. Ma il passato è aggrappato alle gambe di questo paese, e gli impedisce di correre verso il futuro. In Inghilterra hanno presentato una manovra di tagli da quasi novanta miliardi di sterline, ma non hanno fatto un taglio lineare; hanno tagliato l’economia, la difesa e gli esteri e non hanno tagliato la scuola».

L'ha fatto un governo conservatore. «Sì. Consapevole però che se non si investe sul sapere e sulla conoscenza i paesi europei sono destinati a essere schiantati dalla concorrenza del mondo globalizzato. Se non si investe sull’ambiente, sulla qualità di uno sviluppo compatibile, non ci si può dire un paese moderno. Se i ricercatori italiani vanno all’estero, se la scienza e la ricerca sono considerate meno importanti di Masi, l’Italia non avrà futuro. Il futuro del paese deve diventare l'assillo delle persone responsabili. Credo che, alla fine di questo insopportabile incubo in cui ci tocca vivere, fatto di dossier, litigi, divisioni finte e vere, interessi personali, vincerà chi saprà razionalmente dire al paese: è arrivato il momento di fare quei cambiamenti che l'Italia non ha mai conosciuto nella sua storia; ricostruiamo quel sistema di valori, il cui perno è racchiuso in una serie di parole-chiave».

Quali sono? «La prima è comunità. Allo smarrimento del mondo, e dell'Occidente in particolare, si può reagire con l'arroccamento egoistico, con il localismo identitario. O si può reagire con lo spirito di comunità. Non c'è nulla di male se in questa grande confusione ciascuno cerca in una dimensione più minuta il senso delle cose. Nulla di male se questo avviene in uno spirito di comunità, come lo pensava Adriano Olivetti. Dovremo darci un modo di vivere della democrazia che riconosca questa dimensione comunitaria. Dovremo accentuare gli elementi di autogoverno e di responsabilizzazione». 

Il federalismo fiscale non è proprio questo? «Ma oggi viene visto esattamente al contrario dello spirito comunitario: ognuno faccia come gli pare a casa sua, liberiamoci degli zaini. Il federalismo può diventare uno strumento utile. Ma nella dimensione culturale in cui viene pensato dalla Lega, finisce per rafforzare le burocrazie e gli elementi di pesantezza, di lentezza. Invece occorre aumentare lo spazio della sussidiarietà e della società civile. La politica deve ritrarsi dagli spazi inopinatamente invasi, e riaffermare orgogliosamente un ruolo di guida che ha perduto”.

E le altre parole-chiave? «Inclusione. La capacità di includere culturalmente, socialmente, religiosamente, per evitare che le separazioni e le esclusioni diventino, come stanno diventando in Italia e altrove, intolleranza o violenza. Pensiamo al successo dei partiti neonazisti in Europa, al revanscismo di una destra sparita da decenni dalla storia americana che ora riappare in una campagna elettorale particolarmente violenta. La terza parola-chiave è merito: ciascuno ha il diritto di essere giudicato per il merito di quello che fa. Tutte le forme di “6 politico” sono gigantesche ingiustizie sociali. Diamo a tutti opportunità, ma a ciascuno il confronto con il merito di quello che realizza. Il più bel giornale italiano, che si chiama Internazionale, ha ripubblicato un articolo di "The Atlantic": due bambini americani frequentano due classi diverse, e se ne segue l'evoluzione misurando i progressi dell'uno e le difficoltà dell’altro in relazione alla capacità e alla passione dei due differenti maestri. Il merito è il contrario della logica italiana delle raccomandazioni e dell’egualitarismo lottizzato. La quarta parola è creatività. L’Italia ha dentro di sé grande talento. Ma il paese non accompagna e non aiuta chi ha l’ambizione di creare. Penso alla frase di Tremonti, per fortuna smentita, secondo cui "la cultura non si mangia". Infine, l’ultima parola-chiave è legalità: rispetto delle regole del gioco, rispetto della concorrenza, rispetto degli altri. Penso che da un paese smarrito, angosciato, malato come il nostro si debbano estrarre le virtù civili».

Colpa solo di Berlusconi? «La colpa storica di Berlusconi è aver assecondato i difetti dell’Italia e aver combattuto le sue virtù civili. Credo che oggi esista una maggioranza silenziosa degli italiani che si è stufata di questo paese immobile e rissoso e vorrebbe occuparsi di cose serie, che vorrebbe avere un'Italia unita e dinamica, che vorrebbe respirare un'aria di diritti e di doveri. Questa maggioranza merita per una volta nella storia di diventare anche maggioranza politica».

Aldo Cazzullo

sabato 23 ottobre 2010

L'arcivescovo e l'Ucoii

Sinodo: un arcivescovo denuncia la violenza dell'islam e del Corano contro i cristiani. L'Ucoii non è d'accordo, ovviamente.

La religione musulmana si è diffusa attraverso la spada. «Il Corano ordina di imporre l’Islam anche con la forza», accusa l’arcivescovo di Antiochia dei Siri, Raboula Antoine Beylouni al Sinodo speciale per il Medio Oriente in corso in Vaticano. «I Paesi arabi sono fondati sulla Sharia e i musulmani hanno il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli», è il «j’accuse» che risuona Oltretevere. Dopo giorni di affondi contro la «pulizia etica di Israele» e il botta e risposta tra Santa Sede e Stato ebraico, all’assise convocata da Benedetto XVI in nome della pace, scoppia la polemica più temuta: quella con l’Islam. L’intervento-choc del presule libanese Beyluni era stato diffuso in mattinata nel bollettino ufficiale della Santa Sede. Citando alcuni esempi di dialogo islamo-cristiano, in Libano e in Qatar, monsignor Beyluni li ha definiti «molto istruttivi», ma ha poi richiamato l’attenzione «sui punti che rendono difficili e spesso inefficaci questi incontri o dialoghi». Ha detto che il Corano «inculca al musulmano l’orgoglio di possedere la sola religione vera e completa», «dà lo stesso valore a tutto ciò che vi è scritto», non riconosce «uguaglianza tra uomo e donna», «permette di nascondere la verità al cristiano», contiene «versetti contraddittori», ma soprattutto «ordina di imporre la religione con la spada» e «la storia delle invasioni lo testimonia». Come pure la mancata applicazione dei diritti umani sanciti dall’Onu in «tutti i Paesi arabi e musulmani». Perciò «occorre scegliere i temi da affrontare nel dialogo interreligioso e gli interlocutori cristiani capaci e ben formati». Con un richiamo allo storico discorso del Papa a Ratisbona. «La conversione mediante violenza» da parte dell’Islam è «cosa irragionevole» ed «è contraria alla natura di Dio». Frasi isolate del suo intervento scatenarono dure reazioni nel mondo islamico, poi nel tempo, reinserite nel loro contesto, sono divenute paradigma della volontà di confronto. Ferite che nessuno, in Vaticano, vuole riaprire. Al Sinodo si ribadisce che i cristiani devono restare lì, e lavorare per la pace, la giustizia e la convivenza.

Immediata la reazione islamica all’attacco di Beyluni. «Dice il falso chi afferma che il Corano e l’Islam si sono imposti con la spada, si tratta di un falso storico- protesta l’università egiziana di al-Azhar, la più prestigiosa del mondo musulmano-.Se l’Islam si fosse diffuso con la spada, non avrebbe resistito per secoli. L’Islam invece si è diffuso attraverso il convincimento dei popoli ai quali è arrivato e il proselitismo è stato condotto con saggezza ed è così che si è radicato in molti paesi, come ad esempio nel sud-est asiatico o nei paesi dell’ex Unione Sovietica o anche in Iran, Egitto e Nord Africa». Al-Azhar pone l’accento sulla filosofia del proselitismo nell’Islam che deve essere portato avanti con, «saggezza perchè la dottrina islamica si poggia su prove che hanno illuminano le menti e l’Islam ha bisogno della ragione e dell’interesse dell’uomo. La Jihad non ha come scopo la diffusione dell’Islam bensì l’autodifesa. Non c’è stata nella storia dell’Islam una battaglia condotta per imporre la religione, l’obiettivo dell’espansione islamica era liberare paesi sottomessi a una tirannia. Non va confusa la religione con il terrorismo». Rincara la dose l’unione delle comunità islamiche (Ucoii): «È sbagliato lanciare accuse contro l’Islam e contro il Corano per i conflitti e le guerre che ci sono state in passato. Alle polemiche rispondiamo con una giornata di dialogo islamo-cristiano il 27 ottobre». Quindi, «sono accuse false: il Corano parla di rispetto nei confronti della gente del Libro. Sono solo provocazioni per dare vita a polemiche ormai superate da decenni di dialogo tra cristiani e musulmani. Vengono rinfocolate solo per impedire alle persone di buona volontà di arrivare all’unita e alla coesione necessarie per resistere al male che c’è nel mondo». L’Osservatore Romano, pubblicando i resoconti degli interventi, omette le parole sul Corano di Beyluni. Al consueto briefing di metà giornata, un altro vescovo libanese, il maronita Bechara Rai, dice di non aver sentito e spiega che il problema non è con l’Islam, ma con i musulmani fondamentalisti e con gli Stati teocratici che mescolano politica e religione. Quelli arabi, ma anche Israele.

Svezia


Si chiamano Sverigedemokraterna e il loro simbolo è una margherita blu e gialla piegata leggermente dal vento. Sono i democratici svedesi, che nelle ultime elezioni hanno rimesso in discussione il monopolio della socialdemocrazia nel sistema più politically correct del mondo. Ottenendo il 5,7 per cento di voti e 20 seggi, la Svezia Democratica (Sd), si è imposta come novità politica del 2010, entrando in Parlamento dalla porta principale. “Abbiamo scritto una pagina storica”, ha esultato il leader del partito di estrema destra Jimmie Åkesson, il trentenne dalla faccia pulita, i grandi occhiali e gli argomenti feroci. Messa a tacere l’anima neonazi, il leader ha raddoppiato il risultato del 2006. Questo avanzamento risente certamente dell’“imborghesimento” dei modi e dei toni imposto dal capofila dei democratici svedesi, sul modello britannico del British National Party di Griffin o belga del Vlaams Belang di Dewinter. Gran parte della critica pensa si tratti di un travestimento delle nuove destre estreme, altri parlano di nuova stagione dell’estremismo e i giornali, soprattutto stranieri, additano l’Sd come neonazi. Non è forse superficiale accusarli a priori di essere ancora spietatamente razzisti, soprattutto alla luce di quello che sta accadendo in Europa in relazione alle ondate migratorie sempre meno tollerate dai cittadini e al fallimento ormai conclamato del multiculturalismo (Angela Merkel docet)?

Certo, il partito ha radici ben poco tolleranti in fatto di immigrati e, a scorrere le liste dei candidati, c'è ancora qualche nome dal passato imbarazzante – notano gli svedesi che conoscono la storia politica del paese – ma gli intenti, da quanto emerge dai tre punti del loro programma, sembrano altri: meno immigrazione, maggiore sicurezza, più soldi ai pensionati. “L'accusa di razzismo non sta in piedi - dice Eric Almqvist, 28 anni, candidato al parlamento e portavoce del partito - nessuna delle nostre proposte è razzista. Vogliamo una società più omogenea dal punto di vista culturale, linguistico e dei valori, non ci interessa il colore della pelle”. Del resto Akesson ha ripulito il partito dalle scorie neonaziste di un tempo. Non c'è più la fiamma nel simbolo, tra gli slogan si sente meno il “manteniamo la Svezia svedese” dei tempi più bui.

Il dato di fatto è che il Partito dei Democratici svedese ha riportato in auge il concetto del “razzismo differenzialista” secondo cui tutti i gruppi etnici hanno delle caratteristiche proprie e per questo non possono stare insieme. Ma sarebbe una conclusione troppo affrettata ritenere la vittoria del Sverigedemokraterna semplicemente legata alla xenofobia o all’esistenza dello “scontro di civiltà” preconizzato da Samuel Huntington ben 18 anni fa. Razzismo e integralismo sono due facce della stessa medaglia coniata dalla crisi del modello sociale europeo determinatosi, a partire dagli Novanta, con la pericolosa divaricazione dei diritti civili da quelli economici e sociali. Sull’onda di un malcontento che sta investendo quello che per antonomasia è il “paradiso svedese” – modello d’eccellenza di welfare state costruito dai socialdemocratici e diventato il mito di parte della sinistra europea negli anni Settanta e Ottanta –, dove però ben il 18% della popolazione è di origini straniere.

La verità è che il cittadino medio pur credendo ancora al binomio “crescita e welfare”, di fronte allo stato delle cose preferisce la chiusura, per la difesa del territorio e proprio sulla scia di questo sentimento comune il nuovo Partito dei Democratici in Svezia è riuscito a imporsi. I flussi migratori intensi e senza filtri di arabi, maghrebini, senegalesi, turchi, la mancata integrazione degli stranieri, la formazione di enormi ghetti islamici alla periferia delle città e i problemi di sicurezza pubblica hanno creato un malcontento generalizzato, giunto dopo anni di preoccupazioni per una politica migratoria considerata da molti “troppo generosa”. Oggi gli stranieri rappresentano in seno alla popolazione svedese totale una percentuale considerevole, troppo alta per un paese che conta meno di 10 milioni di abitanti disposti in modo non uniforme su 450 mila chilometri quadrati di territorio.

Molti chiedono solo asilo politico per sfuggire da una guerra o da una dittatura – come dimenticare l’episodio del 2004, quando centinaia di immigrati in Svezia che fecero domanda di asilo si mutilarono, con profondi tagli o acido, distruggendo le proprie impronte digitali per evitare che i servizi di immigrazione potessero stabilire se erano transitati per un altro paese europeo dove avrebbero potuto essere rispediti. Costoro ricevono dallo Stato un sussidio, un alloggio e aiuti di vario genere per far fronte alle necessità più importanti. Un peso che molti elettori, a fronte della crisi globale, considerano ormai eccessivo per le loro spalle.