venerdì 30 aprile 2010

L'epurato (vero)


Krancic sta a Fini come D’Alema è stato a Forattini? Forse è un po’ presto per dirlo, anche perché non risultano richieste di risarcimento danni da parte del cofondatore del Pdl ai danni del vignettista de “Il Giornale” e, fino a un mese e mezzo fa, anche del “Secolo d’Italia”. Forse è più giusto dire che i finiani dell’ex organo dell’Msi prima e di An poi, e oggi della quasi corrente che fa capo al presidente della Camera, si sono dimostrati molto zelanti e servizievoli nell’ “epurare” le vignette di uno dei pochi disegnatori satirici di destra dopo che lo stesso aveva preso a bersaglio di satira proprio Gianfranco Fini in persona. Parlando con “L’Opinione” Alfio Krancic ha raccontato una storia già vista e sentita di “squallore redazionale”: “Prima facevo tre vignette a settimana”, poi qualche mese orsono quando sono iniziati i primi attacchi di Feltri a Fini, siccome è noto che io pubblico vignette anche su ’Il Giornale’, si sono ridotte a una ogni due settimane, poi, un mese e mezzo fa, dopo il ’fattaccio’ della pubblicazione di alcune vignette sul cofondatore del Pdl, nessuno mi ha più chiamato“. Sulle cronache locali fiorentine del ”Corriere della Sera“ è anche uscito un articolo dal titolo inequivocabile: ”Tra Fini e Berlusconi alla fine paga Krancic“. E nell’occhiello campeggiava seriosa la scritta: ”Lo scontro nel Pdl“. Insomma, una polemica degna di miglior causa o la prova che a destra la tentazione dei comportamenti settari o da ghetto non trovano mai un epilogo? Difficile dirlo. Certo se qualcuno a sinistra si voleva immaginare Fini nel cofondatore buono che libera o libererà l’Italia da quello cattivo, cioè il Cav, dovrà rifarsi i propri conti. Krancic dice ancora a chi scrive: ”Non capisco questa non lungimiranza, io faccio satira, è giusto che la faccia anche su Fini e in passato l’ho fatta anche su Berlusconi. Mi sembra strano che l’entourage di una persona che vuole accreditare l’immagine di una destra europea poi si comporti come si comportava il sottoscale del ’Secolo’ di Almirante con chi era fuori linea o come si comportava l’ex Pci con i dissidenti; certo il parallelo con Forattini appare un po’ forte, anche perché a me Fini ancora non ha chiesto risarcimenti per le mie vignette, ma si comincia così e poi si finisce chissà come“. Magari i maligni vedranno nelle proteste di Krancic la frustrazione economica di un vignettista in conflitto di interessi tra Berlusconi e Fini nel non poter mantenere due collaborazioni allo stesso momento. ”Mi viene da ridere – replica pronto Alfio Krancic, che oramai si è conquistato persino un posto nell’ “Olimpo” di Wikipedia (“Alfio Krancic negli anni settanta inizia a collaborare con periodici giovanili, come ’Linea ’e ’La voce della fogna’ diretta da Marco Tarchi. Negli anni ottanta continua a sviluppare la sua passione per la satira e comincia una lunga carriera su quotidiani nazionali. Nel 1988 pubblica su La Gazzetta di Firenze, nel 1990 su Il Secolo d’Italia e nel 1992 Vittorio Feltri lo porta a L’Indipendente prima e poi nel 1994 a Il Giornale, dove continua a pubblicare tutt’oggi una vignetta quotidiana. Inoltre Alfio Krancic ha anche collaborato per la pagina fiorentina de La Repubblica, con L’Italia Settimanale, Il Giornale di Bergamo, Oggi, Il Corriere Adriatico, La Peste e per l’emittente televisiva Rai Tre”)per me la collaborazione al “Secolo” era solo una cosa di valore sentimentale: a me mica mi davano i soldi che la Rai ha dato alla mamma di Fini“. Ieri Krancic ha anche avuto un colloquio telefonico un po’ teso con Flavia Perina, la direttrice politica del ”Secolo“, nonché deputata di rigida osservanza finiana. Una persona conosciuta come molto intelligente e che ha sempre tenuto posizioni ammirabili sulla laicità dello stato e dintorni. Insomma una vera esponente della destra europea che piace a tutti noi e non solo alla sinistra. Però il colloquio, per come ce lo ha raccontato Krancic, deve essere stato molto imbarazzante: ”Ha detto che il problema non era politico, ma grafico, quando le ho chiesto perché le mie vignette non stavano più da tempo in prima sul “Secolo”, poi ha denti stretti ha ammesso che ’qualche problemino c’è, data la mia collaborazione con il “Giornale’; infine ha detto che avrebbe visto se si poteva ricucire con Fini”. Insomma un linguaggio da democristiana, che sembrerebbe avvalorare chi come “Libero” accredita la tesi di un complotto deieiei finiani ai danni del Cav per rifare la Balena Bianca con Casini e Rutelli. Dice adesso Krancic come epilogo di questa non edificante vicenda: “se i finiani sono coloro su cui punta la sinistra per liberarsi dal tiranno delle tv, stia molto attenta proprio la sinistra. Io ho anche fatto delle vignette su Berlusconi sul ’Secolo’, come quella che lo ritraeva portato via dall’ambulanza come se fosse un pazzo e l’ho fatta il giorno che proponeva test psichiatrici per i magistrati, a me a ”Il Giornale“ nessuno ha fatto capire che la collaborazione con il ”Secolo“ era sgradita né tanto meno si è comportato di conseguenza tagliandomi di fatto le vignette in pagina”.

Pd


Il Paese è smarrito e i leader del PD si comportano come esorcisti. Questa la radiografia di Nichi Vendola, il confermato governatore della Regione Puglia che, senza rinunciare ai suoi toni forti, esprime ai microfoni di Rainews24 un parere sulla linea politica del partito che lo ha appoggiato nel corso dell'ultima tornata elettorale. "I leader del Pd si comportano come gli esorcisti, cercano di far sparire la realtà che è sgradita, ma non c'è prospettiva di rivincita e di ricostruzione se non si guarda in faccia la realtà".

Al centro dell'affondo di Vendola i giochi di poteri che starebbero sviando il PD dal costruirsi una vera linea alternativa. "C'è una propensione più a discutere di assetti di potere che non di programma dell’alternativa. Spesso non capisco il profilo strategico e la natura del partito, se è carne o pesce. Per esempio l'enfasi con cui si parla di Fini che è sì il protagonista di una importante rottura dentro il Pdl: non può essere percepito come un ingrediente salvifico per il centrosinistra. E ancora la questione sul far diventare il PD più sexy: il problema è invece quello di superare un politicismo che non incide nella realtà, che non sa guardare i problemi. Bisogna riconoscere il volto dell’Italia di oggi, scoprire che c'è un paese smarrito, i cui codici civili sono stati distrutti".

Tre articoli sull'immigrazione


Il sobborgo Rosengaard di Malmö è ancora una volta teatro di violente sommosse da parte di giovani immigrati, stipati in questo ghetto che ghetto proprio non è, dato che tutti abitano in abitazioni decorose, dotate di ogni confort, dai bagni in maiolica alle cucine completamente arredate. Tutto pagato dal Comune.

Nella notte fra mercoledì e giovedì, una turba di giovani indossanti passamontagna e maschere di vario tipo ha preso d'assalto scuole, autovetture, chioschi e cassonetti, dando alle fiamme tutto ciò che trovava sulla propria strada.

Dopo la mezzanotte si è aggiunto un gruppo ancor piú consistente di giovani immigrati che ha continuato l'opera di distruzione su vasta scala. I vigili del fuoco accorsi per domare gli incendi sono stati accolti a sassate e contro di loro sono stati sparati dei razzi. Una pattuglia di polizia che è stata inviata per proteggere i pompieri è stata fatta segno al lancio di oggetti di gni tipo e ha dovuto immediatamente chiamare rinforzi. Soltanto dopo aver arrestato alcuni dei capi, si è potuta placare, almeno temporaneamente la sommossa.

I giovani fermati, quasi tutti sotto l'effetto di droghe, hanno spiegato che l'azione scatenata nella notte era una vendetta per l'arresto arbitrario di un loro compagno, eseguito dalla polizia svedese il giorno prima. Sono occorse parecchie ore per spegnere gli incendi e per rimuovere i relitti delle auto incendiate o distrutte. Una testimone oculare ha detto: «Ho paura. Stanotte bruciava dappertutto, specialmente lungo la via Ramel dove abito. Ho visto tutto dal balcone e non ho il coraggio di scendere in strada nei prossimi giorni».

Quando pareva che la sommossa fosse finita, è ricominciato, nel pomeriggio di ieri, giovedì, l'attacco agli edifici, con il lancio di materiale incendiario. Questa volta fuoco e fiamme si potevano vedere fin dal centro di Malmö e centinaia di agenti antisommossa sono stati inviati nella zona.

Un portavoce della polizia ha riferito, alla televisione svedese, che altri gruppi, provenienti da città e centri vicini, si sono aggiunti ai dimostranti. Non si esclude l'ipotesi che la rivolta sia stata organizzata da elementi esterni, forse addirittura dall'estero, probabilmente di ispirazione islamica, per creare disordine in questa città svedese dove un terzo dei 278.000 abitanti sono stranieri e 60.000 di essi sono musulmani provenienti soprattutto dai Balcani e dal Maghreb. La maggioranza di questi giovani non ha finito la scuola e stenta a trovare un lavoro. Oppure non vuole abbassarsi a svolgere mansioni umili. Come ci dice uno di essi quando gli domandiamo perché «protesti in quel modo» senza motivi. «Vogliamo tutto e subito. Come gli svedesi, altrimenti sfasceremo tutte le loro belle cose».

Gianni Armand-Pilon : "La paura degli svedesi: il Medioriente in casa"

La Volvo S-60 imbocca veloce l’Amiralsgatan, la strada che taglia il quartiere popolare di Rosengard, il «giardino delle rose» di Malmö. La musica greca che riempie l’abitacolo fa a pugni con la timida primavera svedese che scorre fuori dai finestrini. Andreas Konstantinidis supera un paio di chioschi con le scritte in arabo per la vendita di kebab e falafel, si infila in un vialetto alberato e parcheggia: «Siamo arrivati». Oltre la bassa recinzione di legno, al centro di tre edifici di edilizia popolare, c’è il campetto dove Zlatan Ibrahimovic ha tirato i primi calci a un pallone. Tutt’intorno, si vedono solo donne con il velo che tornano a casa con la sporta della spesa.

Andreas Konstantinidis, il presidente di quello che è stato definito il ghetto della nuova Svezia multietnica, è un uomo dall’aria mite. Racconta di essere arrivato a Malmö nel 1974, anno dell’invasione di Cipro da parte della Turchia. Conosce palmo a palmo queste strade, i suoi palazzi, e le storie della difficile integrazione di chi li abita. Le statistiche parlano di 23 mila abitanti e 170 nazionalità, con una schiacciante prevalenza di Paesi segnati da guerre e lotte interne: Iraq, Afghanistan, Palestina, Somalia. Le percentuali di disoccupazione sono da brivido: quasi il 90 per cento non lavora e sopravvive con i sussidi del mitico welfare scandinavo.

Le violenze dell’altra notte non sono una novità. Sui quotidiani non passa giorno senza che le cronache non riportino episodi di scontri con la polizia e tensioni con la maggioranza sempre più esigua di svedesi (180 mila persone su un totale di 270 mila abitanti). E non mancano di sottolineare che tutto questo si deve al fatto che la grande maggioranza degli immigrati ha lo status di rifugiato politico. Come dire: gente che in Svezia non cerca una vita migliore ma che semplicemente si trasferisce qui per necessità vitale, finendo per esportare nella tranquilla Scania conflitti che infiammano terre lontane.

Nella moltiplicazione dei gesti e del loro contenuto simbolico, caratteristica del mondo globalizzato, non c’è da stupirsi se una pietra lanciata nei territori di Gaza finisce per infrangersi contro il parabrezza di un’auto della polizia di Malmö.

Che fare? Nel suo piccolo ufficio in Municipio, Mattias Karlsson, 33 anni, membro del direttivo nazionale della Sverige Demokaterna, una sorta di Lega Nord svedese, non ha dubbi: «Bloccare l’immigrazione, non c’è altra strada. Le statistiche ufficiali, già preoccupanti, nascondono la drammatica deriva di Malmö. Non dicono, per esempio, che i bambini figli di genitori entrambi svedesi sono ormai una minoranza rispetto a quelli che hanno un padre o una madre, o tutti e due, nati all’estero. Negli uffici pubblici ci sono dipendenti che sono stati assunti solo perché parlano arabo. Nelle piscine si tengono corsi separati per maschi e femmine. Le tradizioni natalizie si stanno perdendo per il timore di discriminare la popolazione musulmana. Per non parlare dei reati: il 90 per cento degli autori è straniero, il 90 per cento delle vittime è svedese». Karlsson non fa mistero delle ambizioni del suo partito: «Alle elezioni di settembre supereremo lo sbarramento del 4 % ed entreremo in Parlamento. A Malmö siamo già al 7,5%, e puntiamo a raddoppiare i nostri consensi».

Il fatto è che, come molte città post-industriali, anche Malmö sembra avere una vita sdoppiata. Paure alimentate da una dose di facile populismo, ma anche tante possibilità. Se da un lato la percentuale di reddito prodotta negli ultimi 40 anni dall’industria - in testa quella portuale - è precipitata dal 50 al 12 per cento, dall’altra la forte spinta migratoria ha contribuito ad abbassare l’età media della popolazione, collocandosi a livelli che il resto d’Europa si sogna, e facendo guadagnare a Malmö l’appellativo di città giovane, alla moda. «Cool and glamour» per usare le parole del giudice Kristina Hedlund, che in Tribunale si occupa dei ricorsi di quegli immigrati che per un motivo o per l’altro si sono visti negare il permesso di soggiorno.

«Questione di prospettive» ammette Kent Andersson, il vice sindaco socialdemocratico di Malmö. Che spiega: «Come tutti i grandi cambiamenti, anche quello che sta affrontando Malmö è una medaglia a due facce. Me ne accorgo quando presento i dati sull’età media della nostra popolazione. I professori universitari ne sono entusiasti: “Che fortuna, avete un futuro assicurato”. Se invece ne parlo con un poliziotto, sono certo che quello scuoterà la testa: “Poveretti, chissà quanta criminalità giovanile...”. Hanno ragione entrambi. Ma io mi dico: meglio avere tanti giovani da educare - per quanto sia difficile integrarli - che nessuno, come in Danimarca».

Questione di prospettive, certo. Anche Andreas Konstantinidis non vuole arrendersi: «Molte delle persone che vivono a Rosengard non si sentono svedesi, non vogliono essere svedesi, e forse ci vorrebbero più risorse da investire nella scuola per fargli cambiare idea. Ma io credo nel modello di questo Paese, e sono sicuro che alla fine ce la faranno come ce l’ho fatta io». Fra i 2 mila membri della comunità ebraica sono pochi a pensarla allo stesso modo: «E’ un illuso. Malmö è diventata una provincia del Medio Oriente. I nostri studenti sono minacciati di morte. Quando entriamo nelle classi per parlare dell’Olocausto i ragazzi stranieri escono perché si rifiutano di ascoltare. Molti di noi hanno già fatto le valigie e si sono trasferiti in Israele».

"La sfida non è cacciarli, ma farne dei cittadini a tutti gli effetti"

«La politica della Svezia sugli asili politici non cambia» assicura il ministro per l'immigrazione Tobias Billström, conservatore. Ma aggiunge: «L’Unione europea deve fare di più. È ora che i 27 Paesi si dotino di una legislazione comune per affrontare i flussi legati ai rifugiati politici».

Non è la prima volta che la periferia di Malmö è scossa da scontri tra immigrati e polizia. Non avete nulla da rimproverarvi? «Errori ne sono stati commessi parecchi. Per esempio, abbiamo investito molti, troppi soldi nelle scuole di Rosengaard, a Malmö, senza verificare l’effettivo ritorno di quell’investimento. A volte è più utile per l’integrazione chiudere le scuole che non funzionano e distribuire gli alunni negli altri istituti della città».

Sotto accusa, in realtà, rischia di finire una politica che non impedisce la concentrazione di immigrati nelle grandi aree urbane. Non pensa che sia arrivato il momento di cambiare? «No. In Svezia ognuno deve essere libero di scegliere dove vivere. Certo, sarebbe auspicabile una distribuzione più omogenea dei rifugiati politici, per esempio nel Nord del Paese. E abbiamo intenzione di avviare una campagna di informazione proprio per incentivare i trasferimenti. Spero di ottenere lo stesso risultato con l’arma del dialogo e della persuasione».

Cosa si può fare per favorire davvero la piena integrazione degli stranieri? «Il lavoro è l’unica strada. Perché è il lavoro che fa davvero integrare i cittadini. Dal 15 aprile è entrata in vigore una nuova legge per dovrebbe incentivare gli immigrati in questo senso: chi non ha risorse per mantenere la propria famiglia o vive in ambienti giudicati poco adatti non può ottenere il ricongiungimento familiare.

La spaventa la campagna dei nazionalisti? «Ma no. E’ facile usare gli immigrati come capro espiatorio. C’è una rapina? Colpa loro. Un omicidio? Sono stati loro. Piove? Sempre loro. E tutti dimenticano la vera sfida: trasformarli in cittadini svedesi, in energia positiva per il Paese.

L'imam


Abu Imad, già imam del Centro islamico di viale Jenner, da ieri è nel carcere di San Vittore, a scontare la pena di tre anni e otto mesi di reclusione per associazione a delinquere aggravata da finalità di terrorismo. Ultimamente, mentre era in libertà, concedeva interviste dal tono rassicurante, in cui tentava di accreditarsi come uomo di pace, chiamato a giudicare le controversie sorte fra musulmani. In realtà, aveva messo in piedi una sorta di tribunale coranico, che giudicava in base alla sharia. L’autorità gli viene riconosciuta perché il ruolo di guida glielo aveva affidato nientemeno che Anwar Shaaban, il terrorista di Al Qaeda ucciso nel 1995 dalla polizia croata. E lui, tanto per ribadire la validità dell’investitura di fronte a un gruppo di egiziani che non sembrava intenzionato ad accettare il suo carisma religioso, aveva fatto ricorso al fucile mitragliatore. Una scena altamente drammatica, descritta ai pm milanesi Elio Ramondini e Massimo Meroni dai pentiti del gruppo che richiamano i metodi spicci di un commando formato da «dieci tunisini», che «trascinarono e rinchiusero Abu Khadija in un bagno». Non contento, il loro capobanda «Bouyhia Hamadi, un ex spacciatore di droga molto aggressivo e violento, divenuto uomo di fiducia di Abu Imad», per marcare il territorio, «si recò nell’ufficio di quest’ultimo o nella biblioteca e, tornato nel salone delle preghiere, minacciò gli egiziani con un kalashnikov prelevato in uno di quei luoghi». Visto come si svolgevano le dinamiche del confronto interno al cosiddetto luogo di culto, «la minaccia ebbe effetto, contribuì alla sconfitta e alla fuga dei sostenitori di Abu Khadija, il quale in seguito non ha dato più problemi». Nei confronti dei cosiddetti “infedeli” e dei nemici dell’islam, si agiva con ancora maggior determinazione. Lo testimoniano i manuali di guerriglia e i proclami ultrafondamentalisti di cui erano pieni sia l’abitazione dell’imam che il suo studio. Tutto era lecito per la causa di Allah, anche il reclutamento di kamikaze. «Abu Imad diceva che c’era bisogno di uomini per combattere il nemico e invitava i fratelli ad andare in Afghanistan. Questi discorsi li faceva quando erano presenti un numero ristretto di persone», spiegava tre anni fa, durante il processo che si stava svolgendo al tribunale di Milano, il collaboratore di giustizia Jelassi Riad. Chi non veniva arruolato per la guerra santa, comunque, poteva sostenere Al Qaeda «anche con aiuto economico», utilizzando le cassette per le offerte sparse per tutta la moschea, «dove tutti mettevano i soldi per aiutare le vedove dell’Afghanistan e i fratelli». Abu Imad, coinvolto anche nel primo processo milanese contro un gruppo di islamici, nell’ambito dell’indagine chiamata Sfinge, allora finì solamente indagato e non in carcere, in quanto la magistratura aveva ritenuto che avesse dato segnali di un suo allontanamento da «posizioni di radicalismo estremo» e, come scrisse il gip Guido Salvini, di «condivisione di scelte più moderate all’interno del rispetto delle regole di legalità del Paese che lo ospita». Anche per questo Arman Ahmed El Hissini Helmy (questo il vero nome di Abu Imad), è stato ritenuto dai giudici il promotore e il leader di una cellula salafita legata al Gspc, attiva in Lombardia e in particolare a Milano già prima dell'11 settembre 2001. La cellula aveva un programma «inquadrato in un progetto di jihad e che avrebbe pianificato azioni suicide in Italia e all’estero e dato supporto logistico a militanti da avviare nei campi d’addestramento in Afghanistan e in Iraq». Quanto agli altri suoi coimputati, due si sono visti confermare dalla Cassazione la condanna (la più alta a 10 anni), mentre per altri tre il processo in appello sarà da rifare perché la Suprema corte ha annullato la sentenza di secondo grado.

Francia, Belgio e burqa


Parigi - Il progetto di legge francese che vieterà di indossare in pubblico il velo islamico, burqua o niqab, prevede una multa di 150 euro per la donna e fino a 12 mesi di carcere e un’ammenda da 15 mila euro per chi la obbligherà a coprirsi usando "la violenza, la minaccia, l’abuso di potere o di autorità". A svelare i contenuti sostanziali della proposta di legge che riguarderà circa 2mila donne in tutta la Francia è il quotidiano "Le Figaro". Nel vicino Belgio, proprio ieri la legge sul velo integrale che prevede una multa da 15 a 25 euro e l’arresto fino a sette giorni per le donne che lo indosseranno ha ottenuto il primo via libera della Camera. Il testo del pdl dovrà essere trasmesso al Consiglio di stato prima di passare al Consiglio dei ministri del 19 maggio. Per il varo delle nuove norme prima della pausa estiva, come auspicato dal presidente Nicolas Sarkozy, è prevista la procedura d’urgenza per il voto parlamentare. La legge verrà comunque applicata dopo sei mesi dalla sua promulgazione, riportano i media locali, per consentire alla popolazione di essere preparata e informata.


Tutti d'accordo, solo in due si astengono. Così, anche nel pieno di una crisi di governo, i deputati belgi trovano l'accordo per introdurre il divieto assoluto di indossare il burqa nei luoghi pubblici, comprese strade, giardini e impianti sportivi. Nonostante l'incertezza politica che regna nel paese, il Belgio diventa la prima nazione occidentale a prendere la decisione di mettere al bando il velo integrale islamico, in attesa del via libera anche da parte del Senato che renderà definitivo il provvedimento, sempre che le Camere non vengano sciolte prima per indire elezioni anticipate.

Battuta dunque sui tempi anche la Francia di Nicolas Sarkozy, il presidente che pure da tempo ha dichiarato guerra al velo islamico ma che solo a maggio vedrà una proposta di divieto, seppur non totale, approdare all’Assemblea generale.

La proposta approvata ieri sera in Belgio prevede un’ammenda da 15 a 25 euro e/o una settimana di detenzione per chiunque si presenterà in un luogo pubblico col volto coperto o mascherato in tutto o in parte in modo da rendere impossibile l’identificazione. Il testo non parla esplicitamente di burqa o di niqab. Eccezioni sono previste per le feste di carnevale e vari esperti in Belgio hanno espresso dubbi sull’utilità di una legge di questo genere dato che regolamenti di polizia vietano di coprire il volto già in molti comuni belgi. Il testo e soprattutto il voto così schiacciante espresso dai deputati hanno però una valenza simbolica.

Entro l’estate burqa e niqab, peraltro non troppo diffusi in Belgio, potrebbero sparire da strade, parchi, ristoranti, ospedali scuole e tutti gli edifici destinati al pubblico. Per i promotori dell’iniziativa si tratta non solo di assicurare la pubblica sicurezza ma di rispettare la dignità delle donne, assicurando il rispetto di principi democratici fondamentali.

Il clima attorno a provvedimenti del genere si va surriscaldando in Europa. Ferma la posizione del capo dello Stato francese, che proprio nei giorni scorsi - secondo indiscrezioni del giornale satirico Le Canard Enchaine - avrebbe detto: «Non prendiamo lezioni da paesi in cui le chiese sono vietate». La dura affermazione è arrivata dopo che il ministro degli Esteri Bernard Kouchner, in occasione di un incontro di governo il 21 aprile, sulla questione del progetto di legge sul burqa, chiedeva al presidente «come reagiranno i paesi arabo-islamici» di fronte a un divieto del niqab, esprimendo il timore di «infastidire gli Stati Uniti visto il loro concetto di libertà individuale». Sarkozy avrebbe risposto: «Non prendiamo lezioni sui diritti umani dagli Stati Uniti, dal momento che la pena di morte viene ancora applicata in metà degli Usa, né prendiamo lezioni dai paesi in cui le chiese sono vietate, mentre noi in Francia abbiamo 1200 moschee».

Il primo ministro francese Francois Fillon si è premurato però nei giorni scorsi di rassicurare i musulmani francesi precisando che la legge sul divieto del niqab, il velo integrale, attualmente in fase di discussione, non è rivolta contro l’islam né contro i suoi precetti. Anche per questo Fillon ha ricevuto il presidente del Consiglio francese per il culto islamico, Muhammad al-Mousawi, nel quadro delle consultazioni avviate dall’esecutivo in vista della presentazione del progetto di legge anti-burqa.

Musulmani in italia


Perugia - I due marocchini espulsi ieri sera dal ministero dell’Interno, ai sensi della normativa antiterrorismo, sono due studenti dell’Università per stranieri di Perugia. Si tratta di Mohamed Hlal, 27 anni, e di Ahmed Errahmouni, 22 anni, animatori di quella che gli investigatori della Digos di Perugia, diretti da Lorenzo Manso, descrivono come una "cellula jihadista pronta a compiere eventuali attentati". Nello stesso capoluogo umbro, sono stati perquisiti altri sei studenti universitari (quattro marocchini, un tunisino e un palestinese) "emersi a vario titolo in contatto con i due espulsi". Otto le perquisizioni disposte dalla procura, che hanno portato al sequestro di "copioso materiale cartaceo e informatico", già definito "estremamente interessante" dalla Digos.

L'operazione della polizia. L’operazione di polizia si inserisce nel contesto di un più ampio monitoraggio in ambito universitario promosso dalla Digos della questura di Perugia che, nell’ottobre dello scorso anno, aveva acquisito alcune informazioni su un gruppo di studenti universitari per lo più provenienti dalla città di Fes, in Marocco, accomunati da una visione radicale dell’islam. L’attenzione investigativa si è quindi focalizzata soprattutto sulla figura di uno studente del corso di comunicazione internazionale presso la facoltà di Lingua e cultura italiana che, nell’ambito degli approfondimenti delegati dalla procura di Perugia, aveva evidenziato un profilo di estrema pericolosità, derivante non solo dalle proprie convinzioni ideologico-religiose progressivamente attestatesi su posizioni jihadiste, ma anche da comportamenti antisociali che lo avevano portato a isolarsi dal suo consueto circuito relazionale.

Le acquisizioni della Digos. A questi elementi, si erano poi aggiunte ulteriori acquisizioni investigative della Digos umbra, che indicavano la propensione del marocchino a compiere, se ne avesse avuta la possibilità, eclatanti atti estremi. La stessa deriva radicale caratterizzava la figura dell’altro marocchino espulso, lo studente presso la facoltà di Matematica e Fisica. I provvedimenti sono stati quindi adottati, in virtù degli specifici indicatori di rischio per la sicurezza pubblica emersi dalle indagini,rese possibili anche grazie alla frequente consultazione di siti internet di ispirazione estremista islamica.

Se fossero veri...


LONDRA - David Cameron è il vincitore del terzo e ultimo dibattito televisivo fra i tre candidati premier inglesi, a una settimana dalle elezioni politiche: questo il verdetto dei sondaggi realizzati "a caldo" dai principali mezzi di comunicazione del Regno Unito. Un'indagine della ComRes per la rete televisiva Itv dà al leader dei Tory il 35% delle preferenze, contro il 33% del liberal-democratico Clegg e il 26% del premier laburista uscente Gordon Brown. Una rilevazione della YouGov per il tabloid Sun dà Cameron al 41%, contro il 32% di Clegg e il 25% di Brown; infine, un sondaggio Populus pubblicato dal Times vede Cameron e Clegg testa a testa con il 38% dei voti, mentre Brown è staccato al 25%. Secondo ComRes sul giudizio negativo per Brown ha influito la gaffe dell'anziana definita "fanatica": il 7% di coloro che avevano intenzione di votare Labour si sono detti contrari e un ulteriore 68% si è dichiarato indeciso. Comunque vada a finire il 6 maggio, conclude il Times, la formula dei dibattiti televisivi ha cambiato per sempre la politica britannica: un format che premia più il messaggero che non il messaggio, e che ha favorito dunque Cameron e Clegg per le parole semplici e incisive, a dispetto di Brown sicuramente più preparato ma apparso spesso "alieno" al pubblico. Il premier uscente era peraltro perfettamente conscio del problema: «Non è un lavoro semplice e come avete visto non sempre faccio bene (è stato il suo unico riferimento alla gaffe, ndr): ma non è il mio futuro che conta, è il vostro futuro ad essere scritto sulla scheda, e io sono quello che lotterà per il vostro futuro». Un appello che, al momento, non sembra essere stato raccolto dall’elettorato del Labour.

DEFICIT - Si è parlato di crisi economica, tagli alla spesa, pensioni, sussidi di disoccupazione, immigrazione. Il primo a parlare è, per sorteggio, Cameron. «Viste le notizie dalla Grecia, garantisco che non entrerò mai nell'euro» ha esordito. Brown arriva allo scontro forte di un documento di oltre 100 influenti economisti che hanno espresso sostegno alla politica economica del premier, e in particolare alla sua cautela ad avviare tagli alla spesa pubblica. Cameron, dal canto suo, ha incassato l'endorsement dell'Economist, che ha consigliato di votare conservatori perché seriamente intenzionati a riportare sotto controllo l'economia con massicci tagli alla spesa. Con un deficit che ha raggiunto i 235 miliardi di dollari, il Paese si trova infatti davanti alla prospettiva di soffrire il maggior taglio del welfare dalla Seconda guerra mondiale, con un probabile aumento della pressione fiscale e un tasso di disoccupazione che non pare destinato a scendere rapidamente. Il leader conservatore promette di tagliare la dipendenza dal welfare, di sistemare e di pretendere la giusta qualità in cambio dei finanziamenti ai servizi pubblici. Nick Clegg, il leader dei Lib-Dem che finora è stato la rivelazione della campagna elettorale, ha cercato di presentarsi come il fautore di una politica economica più attenta ai ceti medio-bassi, con servizi pubblici protetti, tasse più eque e «niente bonus ai direttori delle banche per incoraggiarli a guardare al lungo termine». Brown ha rivendicato di aver impedito che la crisi economica diventasse «una calamità» e ha attaccato gli avversari: «Nick e David non capiscono». Alla domanda di uno spettatore, che ha chiesto ai tre leader di essere più onesti sui tagli che intendono compiere al settore pubblico, Brown ha detto che i tagli alla spesa non toccheranno scuola e sanità. Cameron ha sottolineato l'importanza di tagliare gli sprechi nel settore pubblico. Al termine del match la sensazione è che i protagonisti siano stati i due rivali storici, con Clegg che tentava di infilarsi nel rimpallo.

INTERNET - Intanto anche il popolo della Rete si prepara al suo verdetto finale. In una rarissima alleanza, Google - attraverso YouTube - e Facebook hanno unito le forze per dar vita al "Digital Debate", dibattito online sulle elezioni politiche inglesi. Ovvero un rapporto interattivo tra i leader e gli utenti di internet, che il 3 maggio incoroneranno il loro candidato a Downing Street. Da quando si è aperta la campagna elettorale più di 5.300 domande sono state suggerite sulle pagine dedicate di YouTube e Facebook. Le migliori - frutto di un processo di selezione che ha totalizzato oltre 180mila voti - sono state effettivamente poste a Nick Clegg, Gordon Brown e David Cameron. Le risposte dei tre leader sono online e gli internauti hanno pochi giorni a disposizione per votare chi ha risposto in modo più soddisfacente. Al momento il candidato che attira i favori del popolo di internet è senza dubbio Clegg, che ha staccato di varie lunghezze il secondo classificato Cameron. Ultimo posto per il premier in carica.

giovedì 29 aprile 2010

Cari Berlusconi e Tremonti


La spesa pubblica da tagliare, il fisco da rivoluzionare e il federalismo da approvare. Eccole le tre proposte choc di politica economica che nei prossimi giorni arriveranno sulla scrivania del segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani. Tre proposte concepite “con l’idea di creare una nuova cultura economica del centrosinistra” e anticipate dal responsabile del settore del Partito democratico, Stefano Fassina, in questa intervista al Foglio. “Per il bene dell’Italia, deve essere responsabilità del maggior partito dell’opposizione uscire fuori dal chiacchiericcio quotidiano della politica inconcludente e prendersi la responsabilità di fare delle proposte alla maggioranza per far funzionare meglio il nostro paese. In una fase legislativa potenzialmente costruttiva caratterizzata da tre anni senza grandi elezioni, al di là dei preoccupanti scazzi interni alla maggioranza, bisogna avere il coraggio di incalzare quanto più possibile il governo su alcuni temi che per noi sono cruciali. La politica economica, in questo senso, è un terreno sul quale occorre confrontarsi in modo sereno e il prima possibile; ed è proprio per questo che crediamo sia giunto il momento di rompere alcuni tabù della nostra storia e mettere in gioco le nostre idee, anche a costo di scontentare qualcuno”.

Negli ultimi tempi, molti dirigenti del Partito democratico si sono convinti che la scarsa percezione di solidità della leadership di Bersani sia stata legata soprattutto a una difficile gestione della materia principale del bersanismo: ovvero l’economia. I temi economici erano stati gli argomenti attraverso i quali il segretario del Pd aveva promesso, all’inizio del suo mandato, che avrebbe incalzato il più possibile la maggioranza; ma fino a oggi le prove di forza del Pd su questa materia sono state obiettivamente poco incisive. “Abbiamo commesso alcuni errori – riconosce Fassina – e va ammesso che non siamo stati sempre abili a far emergere la nostra identità su temi delicati come quelli economici. Fatta questa riflessione, credo sia arrivato il momento di disegnare e progettare per il nostro partito una nuova cultura economica, capace di essere una sintesi perfetta delle nostre tradizioni e una buona rielaborazione delle esigenze del nostro elettorato. Ebbene, per un paese economicamente e socialmente evoluto come l’Italia, è inutile nascondere che in questo momento, per sostenere la crescita, una rivoluzione fiscale è tra le priorità”.

Fassina ha letto con attenzione la proposta formulata la scorsa settimana su questo giornale dall’Ingegnere Carlo De Benedetti per abbassare le tasse, ed è proprio dalle parole dell’editore del Gruppo Espresso che inizia il ragionamento. “Bisogna smettere di credere che la questione dell’abbassamento delle tasse sia soltanto una fissa degli integralisti del liberismo. Non è così. Conosciamo perfettamente i dati che ci arrivano costantemente dall’Ocse ed è sciocco nascondersi: oggi l’Italia è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale e a questo, come notava giustamente De Benedetti, va aggiunto che i lavoratori italiani hanno una delle più pesanti tassazioni europee sulle proprie buste paga. E allora: come si fa a rilanciare la propensione al consumo degli italiani, dando loro la certezza di guadagnare di più, subito e in prospettiva? Abbassando, quanto possibile, le imposte”. Fassina entra nel merito della sua proposta. “La riforma fiscale che abbiamo in mente, e di cui parleremo sia al presidente della Repubblica sia al presidente del Consiglio, deve premiare i produttori, i lavoratori, i professionisti – artigiani e commercianti – e naturalmente gli imprenditori; deve fare in modo di recuperare la progressività, semplificando gli adempimenti (dove per adempimenti si intendono dichiarazioni fiscali e pagamenti delle imposte), ossia rendere meno onerosa per il contribuente la fedeltà fiscale. Si deve dunque spostare il prelievo da chi paga a chi non paga, dai redditi da lavoro e impresa alla rendita e al patrimonio, dalle attività green e sostenibili alle attività black e dannose per l’ambiente. Piccolo particolare da non sottovalutare: data la nostra condizione di finanza pubblica, e dato lo scenario accidentato che ci ritroviamo di fronte a noi, il vincolo per poter dar vita a questa riforma è la neutralità in termini di indebitamento. In sostanza, il carico fiscale pro capite sul lavoro e sull’impresa – ovvero Irpef, Ires e Irap – deve scendere in relazione all’emersione di basi imponibili, e al contributo di altre fonti di entrata e alla riduzione (e riqualificazione) della spesa pubblica”. Ovvero: “Niente riforma fiscale se non si ridiscute, oltre al recupero di evasione, sul modo in cui viene gestita, e spesso sperperata, la spesa pubblica”. “Il baricentro della riforma – continua Fassina – è la tassazione dei redditi, di tutti i redditi, con un’aliquota di riferimento al 20 per cento. Per quanto riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche, oggi al 23 per cento, è necessario che la prima aliquota venga immediatamente abbassata di tre punti. Non solo. Il limite del primo scaglione di importo andrebbe innalzato, e contemporaneamente andrebbero ridisegnati gli scaglioni residui per sostenere i redditi delle classi medie diminuendo il numero delle aliquote: cinque sono davvero troppe. Infine, per semplificare il fisco, e su questo sono d’accordo con il ministro Tremonti, si dovrebbe disboscare la giungla di deduzioni e detrazioni riconducendola a razionalità”.

Altro punto della riforma proposta da Fassina: “Per il lavoro femminile e la famiglia, andrebbe invece introdotta una consistente detrazione fiscale ad hoc per il reddito da lavoro delle donne che si trovano in nuclei familiari formati almeno da tre figli minori. Gli assegni familiari e la detrazione per figli a carico andrebbero superati assegnando un bonus famiglia di 3.000 euro all’anno per ogni figlio – a cominciare dalla fascia 0-3 anni – da estendere anche ai lavoratori autonomi e ai professionisti. E proprio ai lavoratori autonomi e professionisti, quelli che si trovano al di sotto dei 70 mila euro di fatturato annui, andrebbe offerta la possibilità di evitare gli studi di settore e scegliere un’imposta sul reddito di cassa, al 20 per cento, che sia sostitutiva di Irpef, dell’Iva, e dell’Irap. Infine, per chiudere il cerchio dell’armonizzazione del prelievo, i redditi da affitto e i redditi da capitale andrebbero sottoposti a imposta del 20 per cento, e il relativo gettito destinato alla fiscalità comunale. La service tax proposta dal ministro Calderoli ha un impatto troppo regressivo”.

Gli studi di settore, come è noto, sono uno strumento introdotto nel 1998 dall’allora ministro delle Finanze Vincenzo Visco. Il loro compito è quello di raccogliere un insieme di dati che caratterizzano l’attività in cui operano le imprese, con l’obiettivo di valutare la capacità reale di produrre reddito. Uno strumento che secondo Fassina – che di Visco è stato collaboratore e che con Visco lavora all’interno della fondazione Nens – oggi “è sinonimo di un’insostenibile carico fiscale e contributivo per una parte consistente della platea di lavoratori autonomi, e di giovani professionisti, e per questo andrebbe rapidamente abolito”. L’aggettivo “insostenibile” Fassina non lo usa in maniera casuale. Il responsabile del settore economico del Partito democratico, infatti, riconosce che, tra i tanti tabù di cui si deve liberare un partito che ambisce a diventare una valida alternativa all’attuale maggioranza, ce n’è uno che riguarda una “drammatica percezione”: quella che il centrosinistra sia il partito delle tasse.

“Sì: il centrodestra fa davvero poco per dimostrare di non essere il partito che aiuta gli evasori – e il caso dei condoni resta a mio avviso una scelta politica che non potrà mai essere apprezzata da un vero partito di centrosinistra – ma dall’altra parte una realtà riformista come la nostra non può dimenticare che la storia dell’Italia dimostra che in molti casi l’evasione fiscale, oltre che patologica, è stata anche condizione di sopravvivenza di una parte consistente del pulviscolo di imprese individuali e delle moltitudini di lavoratori autonomi. Per questo, bollare come ‘ladri’ gli evasori, come fanno invece troppe persone a sinistra, è un’assurda generalizzazione; astrattamente condivisibile, ma sbagliata sul piano etico e perdente sul piano politico: perché mette insieme l’artigiano stressato da quattordici ore di lavoro al giorno, e costretto all’evasione per rimanere – o, almeno, illudersi di essere – nelle ultime file delle classi medie e l’imprenditore con yacht e case per le vacanze sparse per l’Italia che magari evade le tasse solo per profondo egoismo sociale. Parliamoci chiaro – dice Fassina – c’è davvero qualcuno convinto che la spaventosa pressione fiscale che si ha in Italia – con aliquota individuale massima al 43 per cento contro una media del 35,7 per cento nel resto dell’Europa – sia utile alla crescita e al benessere del paese? Sinceramente, io credo di no”.

Dall’altro lato, dice ancora il dirigente romano del Pd, bisogna tentare in tutti i modi di riportare alla normalità europea l’evasione fiscale. “Sì, è questa la vera condizione per la riduzione del prelievo pro capite. Diciamolo in sintesi: potenziamento delle banche dati, tracciabilità dei pagamenti, accesso dell’Agenzia delle entrate alle informazioni bancarie. In più, a mio avviso, andrebbe messa in Costituzione l’impossibilità di fare condoni, o almeno andrebbe prevista una maggioranza qualificata (ad esempio dei due terzi) per attuarli in caso di estrema necessità”.

Fassina torna poi a ragionare su uno dei punti chiave della proposta fatta da De Benedetti su questo giornale. “Ha ragione l’Ingegnere quando dice che ridurre il peso del fisco sul lavoro si deve e si può. Per quanto riguarda le imprese, dalla base imponibile Irap, imposta ingiustamente odiata dai ‘piccoli’ perché grava all’80 per cento sulle società di capitali, come evidenzia un recente studio di Confartigianato, andrebbe eliminato del tutto il costo del lavoro. Inoltre, per favorire l’innovazione, andrebbe cancellato l’oppressivo ‘click day’ (un meccanismo che ponendo un tetto al credito di imposta che di fatto svuota l’incentivo) e ripristinato in pieno il credito di imposta per le spese in ricerca e sviluppo e per gli investimenti nel Mezzogiorno. Aggiungo che nell’attuale emergenza andrebbe sospeso il limite del 30 per cento alla deducibilità Ires degli interessi passivi (interessi che non possono penalizzare un’azienda che in una fase di crisi generale non fa utili). In prospettiva, si potrebbe persino arrivare a eliminare l’imposta sulle società e tassare il reddito esclusivamente in capo ai soci”.

Detto in altre parole, Fassina vuole dire che se una società non ridistribuisce gli utili ma investe nell’azienda quanto guadagnato, ecco, le tasse non le deve pagare. “In più, altro particolare da considerare con attenzione, la detrazione fiscale del 55 per cento, introdotta nel 2006, per le ristrutturazioni edilizie eco-sostenibili andrebbe resa permanente: era una buona idea dell’ultima legge finanziaria ma è stata troppo presto dimenticata”. Una “cattiva idea” avuta invece dai compagni di partito è, secondo Fassina, la proposta presentata alla Camera da Cesare Damiano la scorsa settimana, quando l’ex ministro del Lavoro, nel corso dei lavori in Aula, ha invocato un’introduzione di un “contributo fiscale di solidarietà” sui redditi superiori a 200 mila euro annui. Motivo? Prolungare da dodici a ventiquattro mesi la cassa integrazione ordinaria. “Non dobbiamo cadere nella trappola del tax and spend – commenta Fassina – del partito che per poter svolgere con correttezza le sue politiche di welfare ricorre alle tasse. Posso dire senza problemi che è stato sbagliato quanto ha fatto il gruppo del Pd alla Camera, proponendo di aumentare le imposte sui redditi più elevati per coprire l’estensione della cassa integrazione. Il bisogno di introdurre altre tasse sinceramente io non lo vedo proprio”.

All’interno della proposta democratica di rivoluzione fiscale, c’è poi un particolare che va tenuto in considerazione dalla maggioranza. Riguarda il federalismo: “Sono convinto – sostiene il responsabile dell’Economia del Pd – che il governo commette un grosso errore quando, portando avanti una poco comprensibile politica dei due tempi, ripete che una riforma fiscale può essere fatta soltanto dopo il federalismo. Non è così. La ruota dei decreti attuativi del federalismo fiscale, lo sappiamo tutti, ha iniziato a girare da mesi: la commissione tecnica presso il ministero dell’Economia e la commissione Bicamerale sono al lavoro su questo terreno da settimane, e il Pd – questo deve essere chiaro – non avrebbe grandi problemi a discutere le proposte portate in commissione sia dalla Lega sia dal Pdl. Ma a condizione che si capisca urgentemente una cosa fondamentale: la rivoluzione fiscale non può che avvenire simultaneamente alla rivoluzione federalista del nostro paese: non si può sfiorare la tassazione territoriale senza una visione generale della riforma complessiva del fisco. Per questo – dice ancora Fassina – è necessario allargare il lavoro della commissione Tecnica e della commissione Bicamerale per affrontare insieme almeno l’impalcatura del disegno fiscale generale. Subito, senza rinviare. Esistono gli spazi istituzionali e le convergenze politiche per arrivaresu un punto cardinale della Costituzione materiale del paese – a soluzioni ampiamente condivise, e sarebbe sciocco buttare questa grande occasione che abbiamo: migliorare la vita dei nostri cittadini”.

Fassina dice di non considerare affatto scontato un dialogo con la maggioranza su un tema delicato come quello del fisco; ma su un altro terreno politico è invece convinto che si possa raggiungere qualche risultato immediato, anche piuttosto in fretta. “In campo europeo, dobbiamo ammetterlo, spesso le iniziative del ministro Tremonti sono largamente condivisibili. Per quanto riguarda il caso Grecia, la posizione del governo italiano è giusta e va sostenuta. E proprio sul terreno della politica europea sono convinto che sia arrivato il momento di aprire con la maggioranza un confronto. L’obiettivo prioritario, verso il quale il Parlamento dovrebbe lavorare unito, è quello di promuovere una governance di politiche comune in Europa. I seicento milioni di euro messi in gioco dalle Casse depositi e prestiti europee con il così detto ‘Fondo Marguerite’ – ottima iniziativa voluta dal ministro Tremonti – sono utili ma sono ancora insufficienti. Dobbiamo lavorare, insieme ai partner comunitari, a un ‘piano europeo per il lavoro’”.

Secondo Fassina, sarebbe poi utile insistere, in sede europea e Ocse, per trovare una soluzione per contrastare il tax dumping. “La competizione fiscale al ribasso praticata da molti paesi europei dell’est è una vera e propria forma di concorrenza sleale per i mercati dell’Unione europea e va risolta. Credo infine che l’Italia, in stretta relazione con i pochi altri paesi europei consapevoli della necessità di regole globali per evitare serie regressioni protezioniste, dovrebbe premere affinché in ambito europeo, nel G20 e nel Wto si valuti un’ipotesi di border tax adjustment. Ovvero di una tassazione sull’import di prodotti e servizi irrispettosi di standard sociali e ambientali minimalicome capita per esempio con troppi beni provenienti dalla Cina. La nostra disponibilità a discutere di tutto questo c’è: ora tocca al ministro Tremonti dire se vuole trovare assieme a noi delle buone idee per migliorare il nostro paese”.

Il responsabile del settore Economia e Lavoro del Partito democratico si chiama Stefano Fassina, ha quarantaquattro anni, fa parte della segreteria del Pd ed è direttore scientifico dell’associazione Nens. Fassina è uno dei collaboratori più stretti del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Dal 1996 al 1999 è stato consigliere economico del ministero del Tesoro (ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi). Dal 2000 al 2005 ha lavorato a Washington al Fondo monetario internazionale. Dal 2006 al 2008 ha lavorato con Visco al ministero dell’Economia e delle Finanze.

Botta e risposta

L'articolo di Pietrangelo Buttafuoco: "destra, ultima fermata".


Caro Pietrangelo, erano (eravamo) visionari senza visibilità. Rivoluzionari senza rivoluzione. Colti senza cultura. Parlo dei Tarchi, ma anche dei Solinas, dei Cabona, dei Croppi (oggi malfinito assessore), dei Peppe Nanni (neppure assessore), e di tutti quelli che volevano (volevamo) farla nuova. Parlo della Destra, immaginata tra gli anni '70 e '80. Gli anni delle spranghe, delle botte, della - come la chiami tu - "inutilità di stare al mondo". Sulle spalle il fardello di "Roma rivendica l'Impero", delle leggi razziali (quelle italiane del '38, non quelle americane degli anni '60), del "Duce che ha sempre ragione", delle macerie delle città bombardate, della sconfitta epocale, storica, definitiva.

Sempre risucchiati all'indietro dagli avversari, ma anche, soprattutto, da un partito che nel ghetto ci stava benissimo e per il ghetto si era organizzato, spendendo fino all'ultimo spicciolo l'eredità come un qualsiasi barone siciliano decaduto. I morti, i feriti, i dispersi finivano per servire al partito di Almirante. Andava bene così. Che bisogno c'era di tentare di farla nuova, diversa da quella di Tremaglia che olezzava di militari in libera uscita in una casa di tolleranza? O da quella comiziaiola delle piazze almirantiane, dalle quali uscivi ubriaco di retorica e senza un concetto, una idea che non fosse quella di lisciare il pelo ai benpensanti, ai bottegai, ai moderati (Dio li stramaledica!), assetati di pena di morte? Lotta al sistema d'accordo con il sistema, con i suoi apparati, i suoi "servizi", le sue "piazze Fontana".

Antidivorzio e anticomunismo, acquasanta e mogli (plurale) con amanti, socializzazione e contributi dalla Confindustria. Andarono (andammo) a cercarla nella "terra di mezzo" questa "nuova Destra", tra le pagine di Tolkien, fatto conoscere in Italia da De Turris su "L'ITALIANO" di Pino Romualdi, l'incompreso inventore del partito. In quella terra erano (eravamo) al riparo dal più terribile problema del nostro tempo che è quello, come diceva Cocteau, della stupidità che pretende di pensare e che oggi pure urla. Credevano (credevamo) di metterci al riparo dai giornalisti spioni della redazione romana di un noto quotidiano, dai massoni delle diverse confraternite occidentaliste, dai generali immerdati nel gioco politico.

Proprio non ci pensava a farsi nuova quella Destra dei pellegrinaggi a Predappio con acquisto di gadget, dei "ranci camerateschi", delle commemorazioni in camicia nera del 28 ottobre, dei santini elettorali con "il testone", della ripetizione dei riti più ridicoli del ventennio, delle macchiette alla "vogliamo i colonnelli". La società stava cambiando; forse occorreva pensarla "simultaneamente", con la parte destra e quella sinistra del cervello e del cuore. Non ci sarebbe neppure stato bisogno di capi missini colti; sarebbe bastato il loro rispetto per la cultura, la curiosità intellettuale per i nuovissimi appuntamenti con la storia, con il grande gioco delle idee.

A ben pensarci, il rifugio nel fiabesco era il modo, il tentativo, di preservare una comunità spontanea e volontaristica contrapposta al neofascismo imposto e al comunismo arcocostituzionalista. Oggi potremmo riferirci al "becerodestrismo" alla Feltri e al "luogocomunismo" degli intellettuali snob. Ufficialmente Tarchi fu fatto fuori da Almirante, ma certo il più contento fu Rauti.

Gli faceva ombra; pensava, organizzava, scriveva, immaginava. E agiva. Meglio Fini: obbediva a Almirante, ma finiva per tenere unita la sua corrente, ben chiusi i suoi scheletri nell'armadio e gli lasciava la parte del "pericoloso rivoluzionario" con pennichella pomeridiana. Oggi Rauti è il suocero del sindaco di Roma. Poi, con il primo "sdoganamento" (quello politico di Craxi, non quello da supermercato di Berlusconi), arrivarono i posti nelle società comunali, il sottopotere occultato ma presente, le prebende che facevano tanto socialista.

Con un "Amen" a quelli che, come Beppe Niccolai, sognavano, una classe dirigente che potesse farsi esempio. Perciò "quell'esperimento (quasi) riuscito di Destra comunitarista, libertaria, militante, non occidentale, creativa e persino anche musicale" non riuscì. Non poteva riuscire. C'era Almirante con la sua "palude dorotea"; c'era la corrente lottizzatrice di posti dentro il partito dei Gasparri, della "premiata antica famiglia Larussa" e di quelli che squittivano e si spellavano le mani per ogni dittongo del capo. Propio come oggi per il " Dapporto di Arcore". Sono stato vaccinato da Pino Romualdi contro il culto della personalità. Davanti alle "piazze del Popolo" stracolme e osannanti, riempite, come sussurrava sottovoce Giorgio, "senza nemmeno le cartoline precetto come faceva LUI". Continuava a dirmi che gli era largamente bastato averne seguito uno solo di uomo nella sua vita. Che di piazze ne aveva riempite molte, ma non aveva avuto sempre ragione, anzi!

Prima o poi, per fortuna, il berlusconismo finirà, senza bisogno dell'intervento di qualche pronipote di Bresci; o, forse, visti i risultati elettorali di oggi, perché stiamo per entrare nella fase jugoslava del nostro destino di popolo; una fase pericolosa ma, temo, necessaria per una società che si è invigliacchita nell'egoismo sociale piuù indecente. Per questo non strepisco a sentire la definizione "Destra - Destra". Dov'è, dove si annida, dove pensa, dove scrive, quali segnali di vita manifesta? Dentro il Pdl? Con Bondi, Verdini, Cicchitto e Larussa? O con "Capezzolone"? In Sicilia? Nel Lazio? In Calabria? In Campania? O in Lombardia con la nota "associazione per delinquere di stampo cattolico"?

E nemmeno, caro Pietrangelo, mi commuovo per qualche conato comunitaristico di qualche bravo e colto (lo so che ce ne sono) ragazzo della Lega. Non butto una patria, per quanto sputtanata e sbrindellata, per costruirne una bonsai neppure troppo pulita. Sono troppo convintamente ateo-spiritualista per prendermela con le religioni degli altri, né desidero alabame di alcun tipo. Per "fare futuro", paradossalmente, bisognerebbe prima "fare passato"; quello di Tarchi e dei suoi amici degli anni '70, appunto. Io l'ho fatta finalmente finita con questa illusione ottica, con questo fuoco fatuo, con questa finzione televisiva che è la destra, espressione giusta dell'Italia più mediocre. Poi, terminata la sbornia berlusconiana (democrazia, democrazia quanti crimini in tuo nome!), si vedrà. Nel frattempo mi metto alla "SINESTRA".

Un abbraccio, Tomaso Staiti

Divieto di burqa, primo si...


(ANSA) - BRUXELLES, 29 APR - I deputati belgi hanno approvato la proposta per il divieto assoluto di burqa islamico e niqab nei luoghi pubblici. Il Belgio diventa cosi' il primo paese occidentale a prendere una decisione di questo genere, che ora per diventare definitiva attende il via libera anche da parte del Senato, sempre che le Camere non vengano sciolte prima per indire elezioni anticipate. Eccezioni sono previste per carnevale. Burqa e niqab non sono comunque molto diffusi in Belgio.

Broken - Seether feat Amy Lee

Italo Bocchino, l'epurato


E' definitivo. Il vice capogruppo alla camera del Pdl, Italo Bocchino, si è dimesso. Lo rende noto un comunicato del Pdl con cui viene revocata l'assemblea del gruppo parlamentare che avrebbe dovuto discutere "sulla lettera di dimissioni e su quella successiva di ritiro delle stesse firmate dal vicepresidente vicario". La riunione è stata annullata "essendo venuto meno l'oggetto della stessa in seguito alle dimissioni definitive dalla carica consegnate stamattina da Bocchino al Presidente del gruppo".

Epurato - Commentando le dimissioni, liberamente presentate, il finiano lancia una pesante accusa contro il premier: "C'è stata una direttiva di Berlusconi durante Ballarò che chiedeva la mia testa. Berlusconi commette il grave errore di colpire il dissenso, colpire cioè chi è in vista per educarne cento, ma questo non porta lontano il partito. Continuiamo la lotta dall'interno". E ancora: "È evidente il tentativo di arrivare ad una epurazione mia per colpire l'area a me vicina, essendoci stata una sua direttiva. Ho confermato le mie dimissioni per far comprendere che il problema è politico e non di posti. Questo permetterà di contrastare il centralismo carismatico che dà prova della sua esistenza". E' un'ondata di fango inarrestabile: "Chi ha voluto chiamare il proprio partito Popolo della Libertà e l’ha addirittura definito il partito dell’amore, non fa oggi una bella figura, dando vita ad una epurazione figlia di una ossessione che lui ha portato avanti da molto tempo. Berlusconi è ossessionato da me. È da almeno un anno che chiede a Fabrizio Cicchitto la mia testa, perché ritiene che non possa esserci uno non allineato. Mi ha pure chiamato per dirmi di non andare in televisione. Che un leader chiami un dirigente per dirgli questo, è una cosa che non esiste al mondo. In una telefonata, con toni concitati, mi ha pure detto: "Farai i conti con me"".

La replica del Cav - "Ho chiamato Bocchino l’altra sera quando doveva andare a Ballarò. Con me, devo dire, è stato anche un po' insolente. Gli ho detto che non si può andare in tv a fare sceneggiate coinvolgendo il partito. Tutti nel Pdl devono capire che non si può sputtanare il partito". Il premier ha poi raccontato di quanto sia stata difficile ieri la mediazione, durante la tradizionale cena con i senatori a palazzo Grazioli, affinché questa mattina non si arrivasse a una votazione che avrebbe spaccato ulteriormente il partito: "A volte mi verrebbe voglia di mollare tutto, non si può passare tutta una giornata a discutere per questioni di partito. Io ho un Paese da governare e dei problemi da affrontare e francamente è deprimente perdere così tanto tempo per certe cose...".

La lealtà di Fini - Ieri il Cavaliere, avrebbe poi parlato a lungo del cofondatore del partito: "Sono rimasto deluso dal punto di vista umano, mi ha tradito e non me lo aspettavo. E’ stato come ricevere una coltellata, pensavo di avere un buon rapporto con lui e invece... Abbiamo constato che tra di noi non c’è più amicizia, ora vediamo se c’e lealtà da parte sua. Lealtà nei confronti del Pdl, ma soprattutto degli elettori. Vedremo se sarà leale in parlamento. È chiaro che se qualcuno vuole assumersi la responsabilità di far cadere questo governo lo si vedrà in parlamento e a quel punto la strada per le elezioni sarà l’unica possibile".

Una soluzione indolore - "Stiamo cercando una soluzione che sia indolore per tutti". Così il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si era espresso stamani sulle dimissioni del finiano nel giorno della riunione decisiva. A convocare ieri l'assemblea era stato il capogruppo Fabrizio Cicchitto, che, in una lettera inviata al vice, aveva spiegato che sarebbero stati i deputati a decidere se accettare o meno le dimissioni. “A questo punto, credo di non poter più, autonomamente, risolvere la questione, sulla quale ovviamente chiarirò il mio pensiero. La responsabilità del mio ruolo mi impone di convocare il gruppo per affrontare serenamente la vicenda e, con il metodo più democratico, lasciare ai deputati del Pdl il compito di accettare o meno la prima o la seconda delle tue lettere”.

Ripensamenti - Il riferimento è una seconda missiva firmata Bocchino con cui il deputato cerca di fare marcia indietro: “Alla tua lettera di dimissioni fa oggi seguito una nuova tua lettera (anch’essa preceduta e seguita da pubbliche dichiarazioni non proprio distensive) con cui pretendi semplicisticamente e con motivazioni astruse e non condivisibili di ritirare le tue dimissioni, apparse su tutti i principali giornali e tv con voluto effetto mediatico”. Da qui la necessità di convocare deputati. A loro l'ultima parola.

Ieri sera la tensione era alle stelle. Lo stesso Gianfranco Fini, interpellato sull'assemblea aveva dichiarato: "La riunione del gruppo di domani? Domani rischiamo di fare il bis della Direzione, anzi peggio, non vorrei che volasse qualche sedia...".

Siano prese precauzioni...per non farli incazzare


Il presidente della Conferenza episcopale francese, cardinale Andrè Vingt-Trois, ha invitato il Primo ministro Francois Fillon a fare in modo che "i musulmani che risiedono in Francia non si sentano stigmatizzati da un progetto di legge (sul divieto di portare il burqa nei luoghi pubblici) che riguarda solo una parte molto ridotta di loro".

Il cardinale ha auspicato che "siano prese tutte le precauzioni affinché sia chiaro che non si tratta di un'aggressione contro la fede nell'Islam". "Noi avevamo detto di non essere favorevoli a una legge di questo tipo - ha concluso monsignor Vingt-Trois - ma dato che si è deciso di farla, ci auguriamo che sia la migliore possibile".

mercoledì 28 aprile 2010

Il mio è differente...


Una storia di vessazioni andata avanti per circa un anno, al termine della quale un cittadino egiziano è giunto persino a sequestrare il figlio di 3 anni. L'uomo responsabile di maltrattamenti e violenze nei confronti della moglie, una donna italiana di 29 anni, è stato arrestato dagli agenti della Squadra Mobile della Questura capitolina. I particolari saranno illustrati in una conferenza stampa che avrà luogo alle 11 di oggi a San Vitale, presso gli Uffici della Squadra Mobile. La picchiava perché non indossava il velo davanti ai suoi amici. Una storia fatta di maltrattamenti, percosse e violenze anche in presenza del loro bambino. Una situazione che nel tempo è degenerata sempre più fino a quando a gennaio il 29enne egiziano, che con un escamotage era riuscito ad avere un passaporto italiano per il bimbo, ha organizzato un viaggio tutti insieme in Egitto dai suoi genitori. Appena atterrati l'uomo ha sequestrato il piccolo di quasi tre anni rispedendo in Italia la compagna con la forza. La donna, una 29enne romana, rientrata in Italia ha denunciato l'accaduto alla polizia di Stato. Il padre tornato a Roma per riprendere il suo lavoro al banco di fiori é stato arrestato dagli agenti della squadra mobile della questura di Roma per sequestro di persona, sottrazione di minore, maltrattamento e violenza sessuale. Il bimbo invece è rientrato ieri a Roma accompagnato da una hostess della compagnia aerea egiziana ed è stato riaffidato alla madre. «Queste storie purtroppo sono molto frequenti - ha detto il capo della squadra mobile della questura di Roma, Vittorio Rizzi - ma quella raccontata oggi ha un lieto fine e dà speranza a donne che hanno subito vicende simili».

Il virus


L’Italia, in una primavera senza sole, passa i pomeriggi a discutere delle sorti dell’onorevole Italo Bocchino. Questo è il capolavoro politico di Gianfranco Fini, cofondatore del Pdl e presidente della Camera eletto con una maggioranza che lui definisce «con la bava alla bocca». L’errore di Fini è pensare che tutto sia sotto controllo. La politica, però, non si gioca solo a tavolino. Non è una sorta di «tetris» dove basta incastrare le tessere e ragionare sulle prossime mosse. Fini e i suoi dicono che sono leali e fedeli. Ogni volta che parlano del partito si mettono una mano sul cuore e giurano che loro sono pidiellini nell’animo, se fanno un po’ di casino è per il bene della democrazia, della destra, perfino di Berlusconi. Può darsi. Quello che però si vede, qui, da lontano, è un Pdl in crisi di identità, incartato, con le mani legate, costretto a sedute di psicanalisi, lontano dalle questione vere, dalla politica, dal cuore dei suoi elettori.

Un vecchio proverbio dice che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Allora non ha senso chiedersi se Fini sia in buona o cattiva fede. Non importa. Non è rilevante. Quello che pesa sono le conseguenze delle sue azioni. Il Pdl in questo momento non è impegnato con la giustizia, il federalismo fiscale, il presidenzialismo, il welfare. Non sta pensando alla crisi o alla riduzione delle tasse. Non sta neppure pensando a trovare una soluzione per gli immigrati che, espulsi dal mercato del lavoro, non hanno più un permesso di soggiorno. Nulla di tutto questo. Nulla neppure dei temi che sono cari a Fini. Di cosa si parla, invece? Delle dimissioni di Italo Bocchino da vice capogruppo. Si parla della sua richiesta di azzerare le cariche parlamentari alla Camera. Si parla di Italo Bocchino che chiede le dimissioni di Cicchitto. Ecco, questo è il costo dell’affare Fini. La paralisi della politica, ingabbiata nei tatticismi di basso profilo di una corrente minoritaria, che sogna di diventare partito, ma non ha la forza per farlo.

C’è qualcosa che non va in questa destra moderna. È lontana dal buon senso. Sta giocando una partita che la maggioranza degli elettori non capisce. La interpreta come un capriccio, come uno scontro di potere, come un’insofferenza che si lascia alle spalle senso di responsabilità e lealtà. Fini è bravo, quando va in televisione spiega con chiarezza le sue ragioni alte e nobili, ma giorno per giorno, nella grigia quotidianità, le sue parole volano rasoterra. E tutto finisce nella solita difesa di poltrone e poltroncine.

Lo strappo finiano è un virus che sta già sfibrando questa maggioranza. La Lega dice che se continua così, se tutto ruota intorno all’onorevole Bocchino, se le riforme vengono messe da parte, se si cavilla sul federalismo, se si parla di capigruppi e vice-capigruppi, se questi tre anni passeranno come uno stillicidio di litigi e sottoterfugi da separati in casa, allora meglio lasciar perdere tutto, meglio non farsi del male. Meglio le elezioni. Fini sostiene che le elezioni lui non le vuole. Allora non diffonda il virus. Altrimenti il Pdl deve trovare, in fretta, gli anticorpi. Di finismo forse non si muore. Ma si sta male.

Spagna


Inquietante dato sulla disoccupazione in Spagna, che ha toccato il 20%, (per giunta in presenza di meno lavoro sommerso rispetto all'Italia). Un'indagine dell'Instituto Nacional de Estadística (INE) ha mostrato i dati dell'inchiesta sul mercato del lavoro (Encuesta de Población Activa -EPA) relativi al primo trimestre 2010, che saranno resi pubblici venerdi. Secondo il quotidiano ABC, che ha ottenuto i dati in anticipo per un errore di Epa, la disoccupazione sarebbe al 20,5%, con 4.612.700 disoccupati. Cosa più grave: un incremento di 286.200 persone rispetto alla fine del 2009.

I giovani al di sotto dei 25 anni hanno un tasso di disoccupazione del 40,93%. Aumento degli occupati solo nel settore dell'agricoltura (+52.600). Nell'industria crollo di 81.100 unità nei primi mesi del 2010, su 2.599.800 in tutto; nell'edilizia, vero scandalo paesaggistico, ambientale, economico, dell'Europa del sud i lavoratori neo disoccupati sono 139.700, su un totale di 1.663.000; nei servizi sono 83.600, su 13.296.100 di occupati (troppi, a occhio e croce: i mutui e la speculazione edilizia, col boom del lavoro improduttivo e statalizzato (anche in forme invisibili, come il link Stato-banche negli Usa, non il "libero mercato", sono il bubbone della crisi mondiale)

Prima delle elezioni amministrative del 2011 dovrebbe nascere il partito degli emigranti spagnolo, con l'obiettivo di "proteggere i diritti di questa parte della società".

Si chiamerà PIN -Partido de los Inmigrantes Nueva Generación-, e il suo programma si basa anche sulla promozione di merci e cibi di basso costo, destinati agli emigrati, oltre che sull'impulso del (nefasto) culto del multiculturalismo. Il presidente del partito è il boliviano Pedro Ribera, mentre il vice è uno spagnolo, Francisco Roldán. Il nuovo partito fa pensare che il programma del Psoe (creare una forte base elettorale con gli emigrati)è saltato, visto che giustamente i neo-spagnoli preferiscono organizzarsi in autonomia da soli.

Carlos Chao, rappresentante del Comité Para la Integración del Pueblo Chino en España, afferma che nel paese iberico ci sono più di 200.000 immigrati cinesi, dei quali oltre 70.000 sono clandestini irregolari. Secondo Chao il Ministero del lavoro e dell'immigrazione spagnolo sta bloccando tutte le domande di regolarizzazione, ma così facendo da' "un semaforo verde all'economia in nero".

Ben 27.000 cinesi hanno una propria ditta, la loro è la comunità spagnola con maggiore presenza nel settore del lavoro autonomo. I laureati cinesi nemmeno in patria cercano un posto di lavoro "fisso ed eterno", considerato roba da disprezzare. Dopo i cinesi, in Spagna 24.000 romeni lavorano in proprio, e 20.000 inglesi.

Salgono però le proteste contro i negozi cinesi: non hanno orario e vendono ogni genere di prodotto (ma se i prodotti sono regolari, dov'è il delitto?). In un anno ci sono state 600 denunce per irregolarità alla Camera del commercio di Madrid. (fonte Minuto digital).

(Da Dagospia): "Il panorama, in una Spagna ove ci sono, secondo dati ufficiali del governo, 700 mila case nuove vuote, si incupisce sempre di più. Le rebajas, i saldi, fanno capolino su tutti i negozi tutti i mesi dell'anno. E nei grandi quartieri dormitorio, come a Leganés, nel sud di Madrid, chiudono persino centri commerciali ciclopici come l'M-40 perché i costruttori non possono pagare i debiti delle banche (il tasso di morosità è ormai del 5, 3%).

Tanto che non solo dilagano le imprese di riscossione dei crediti come «El Cobrador del Frac», i cui impiegati vestiti da pinguino sputtanano i debitori in pubblico fino a quando pagano il dovuto, ma la crisi ha inventato anche il «Gabelliere del cellulare», che perseguita i morosi tempestandolo quotidianamente di telefonate.

Specchio dei tempi, la storia più emblematica della Disoccupatilandia di Zapatero è quella di Díaz Ferrán. Non è uno dei tanti parados che assediano gli uffici di collocamento, bensí il presidente (ancora in carica) della Ceoe, la Confindustria spagnola. Prima non pagava gli stipendi ai lavoratori della sua Air Comet (fallita con 310 milioni di euro di debiti), poi il governo gli ha commissariato l'assicuratrice Seguros Mercurio, adesso rischia il pignoramento dell'agenzia di viaggi (privatizzata) Viajes Marsans".

Moralità islamica


Cari amici,
vi ricordate il caso della donna francese ingiustamente multata dalla polizia stradale per guida pericolosa perché conduceva la sua vettura col burka o analogo strumento della purezza islamica? Naturalmente c´è un sospetto di discriminazione, come sostengono tutti i giornali. Pensate che per accentuare questo sentimento, o a causa di esso, non so, sul sito internet del Corriere della Sera per qualche ora, l´economica multa da 22 euro era stata moltiplicata per mille e si era letto che la disgraziata signora dovesse pagare una cifra più o meno pari al costo della sua macchina per il privilegio di viaggiare per telepatia. Provate voi ad avvolgervi uno straccio intorno alla testa lasciando solo una fessura per gli occhi e vi renderete conto di quanto sarete capaci di vedere e sentire il traffico.

Be´, a differenza di quelli italiani, i giornali francesi hanno approfondito un po´ la storia, scoprendo che l´invisibile signora islamica, di cui non è stato nemmeno diffuso il nome (senza faccia, senza nome: un fantasmino, ma tutto nero...) ma solo l´età - 31 anni - ha un marito. Niente di strano in questo e neppure nel fatto che lui sia algerino. Il fatto è che Lies Hebbadj, questo il suo nome, non è sposato solo all´incauta guidatrice, di mogli ne ha quattro in tutto, immaginiamo tutte inscatolate nella loro prigione portatile ogni volta che escono di casa. Ed è qui che emerge la naturale superiorità della cultura islamica, perché le quattro signore non solo permettono all´ingegnoso Lies un´inesausta varietà amorosa che senza dubbio stimola la sua spiritualità, ma gli portano ciascuna un assegno di disoccupazione che lo sottrae da qualunque volgare preoccupazione materiale - anche se il gentiluomo a quanto pare lavora, fa di mestiere - indovinate un po´ - il macellaio halal.

Di fronte ai propositi reazionari del ministro degli interni che invidioso del perfetto ménage si è proposto addirittura di togliergli la cittadinanza, il nostro buon macellaio che tiene giustamente la sua carne umana in scatola, ha replicato con arguzia degna delle Mille e una notte: ma come, questo non è il paese dove tutti hanno un´amante? Geniale, direi. O forse sublime, non so. Comunque molto islamico: quando le leggi o le abitudini mi fanno comodo le invoco, quando mi ostacolano le ignoro. Ci resta una sola speranza, che presto Eurabia si dia definitivamente alla sua natura mediterranea, che la Francia per giusto contrappasso sia annessa all´Algeria e Lies sia nominato ministro della famiglia, o, chessò, iman della moschea di Notre Dame Voilée nella città di Nuova Medina, una volta chiamata volgarmente Parigi.

Gossip finiano


Un lavoro alla «suocera» non si può negare. La «suocera» in questione è quella di Gianfranco Fini, il presidente della Camera e secessionista (per poche ore) del Pdl, le cui diatribe con il premier volano a ricaduta anche sulla Tv di Stato. Bene, l’altro giorno avevamo scritto che tra i produttori in fibrillazione per la rottura tra finiani e berlusconiani, temendo ripercussioni, c’era anche Giancarlo Tulliani, fratello della compagna di Fini, Elisabetta.

Al «cognato» Tulliani, attraverso un intricato sistema di società, è riconducibile la realizzazione di una parte di Festa italiana, programma del pomeriggio condotto da Caterina Balivo su Raiuno, la rete diretta dal finiano doc Mauro Mazza. Lo spazio si chiama Per capirti, una sorta di talk dedicato al rapporto tra genitori e figli. Insomma un piede messo dentro il canale ammiraglio della Rai, un lavoretto che viene lautamente ricompensato: un milione e mezzo di euro. Precisamente ottomila euro a puntata per 183 puntate. Tra l’altro il programma della Balivo la scorsa stagione era realizzato totalmente all’interno della Rai, mentre quest’anno un pezzetto è stato appaltato all’esterno senza che ci si guadagnasse in ascolti e dunque ci fosse una reale resa a fronte dell’investimento economico.

Ieri, il sito Dagospia ha approfondito l’argomento, sciorinando nei dettagli la matassa intricata dei rapporti tra la società di produzione e la famiglia Tulliani. In sostanza, nel complicato sistema di scatole cinesi, la maggioranza della società che produce la trasmissione, denominata Absolute Television Media (sigla AT Media), è detenuta da Francesca Frau. E chi è questa signora sconosciuta nel giro dei produttori che lavorano per la Rai? È la mamma di Elisabetta e Giancarlo Tulliani, dunque la «suocera» (le virgolette valgono perché non sono sposati) di Fini. Non risulta che la signora Frau, 63 anni, abbia una lunga esperienza nel campo televisivo, almeno non nelle reti pubbliche. Così, scava scava, viene il dubbio che lei compaia ufficialmente nei documenti ma dietro ci sia qualcun altro.

Giancarlo Tulliani non risulta nella compagine societaria delle varie società che sono spuntate nel giro di pochissimo tempo (Elisabetta è fidanzata con Fini dal 2007) e intestate alla madre, tra cui la Absolute Television srl e la Giant Enterprise srl, che, per dirne un’altra, sembra l’abbreviazione di Giancarlo Tulliani. Compare invece nella prima società denominata Giant Enterprise Group, liquidata nel 2008. Comunque sia, in ballo nella produzione di Festa italiana c’è la famiglia Tulliani. A trattare in Rai di solito va Roberto Quintini, che detiene una parte della Group srl, a sua volta proprietaria di una parte di At Media.

Certo si dirà, nella Tv pubblica funziona tutto così: ogni partito ha i suoi referenti, molti uomini raggiungono posti di potere attraverso raccomandazioni politiche per non parlare delle vie «facilitate» di certe attricette o vallette. E, in molti casi, il risultato finale può anche essere una buona programmazione che fa risultati d’ascolto, come è il caso della rete diretta da Mauro Mazza. Ma certo è meglio che la «moglie» di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto, soprattutto quando Cesare è il Presidente della Camera.

Comunque, Dagospia ieri è andato giù duro, ricordando anche le imprese passate della famiglia della compagna. Che aveva già provato a entrare con scarso risultato nella ghiotta torta delle produzioni Rai. L’estate scorsa per esempio la società della signora Frau aveva provato a realizzare uno show musicale intitolato Italian Fan Club Music Award’s, andato in onda su Raidue e che si era tramutato in un flop di ascolti. Poi si era deciso di tentare con Raiuno.

Ma da sempre Elisabetta cerca di dare una mano al fratello più piccolo. Ai tempi in cui era fidanzata con Luciano Gaucci, riuscì a far nominare Giancarlo ai vertici della Viterbese, squadra che era di proprietà dell’ex presidente del Perugia, d’altronde lei era diventata presidente della Sambenedettese. Questo prima di scoprire di essere più portata per ruoli artistici, tanto da entrare nel grande ventre Rai e finire a partecipare a trasmissioni come Mattina in famiglia e Unomattina. Una passione rimasta anche quando si è fidanzata con Gianfranco Fini (con cui ha avuto due figlie e che nel frattempo si era lasciato con la moglie Daniela) e trasmessa, guarda caso, all’intera famiglia sotto un’altra veste, quella di produttori di programmi.

Finiani assenti, la prima ritorsione


ROMA - Governo battuto per un solo voto alla Camera (225 sì contro 224 no): passa infatti a Montecitorio un emendamento del Pd al ddl lavoro su cui l'esecutivo aveva espresso parere contrario. L'emendamento, di cui è primo firmatario Cesare Damiano, si riferisce all'articolo 31 del testo, relativo alle procedure di conciliazione e di arbitrato, ed in particolare alle clausole compromissorie. In base al testo passato, le commissioni di certificazione accerteranno la devoluzione agli arbitri solo delle controversie di lavoro già insorte e non che dovessero insorgere in futuro.

ASSENZE E TENSIONE - Molte le assenze tra le file del Pdl: 95 i deputati che non hanno partecipato al voto, di cui 45 in missione. Defezioni si sono registrate sia tra gli esponenti della maggioranza che tra i finiani e dopo il voto si sono registrati momenti di tensione in Transatlantico. Il deputato del Pdl, Giancarlo Lehner ha accusato infatti il finiano Antonino Lo Presti di aver organizzato una trappola sul voto. «Ma quale imboscata dei finiani! Ti devi vergognare a dire queste cose!», è stata la risposta del parlamentare vicino al presidente della Camera. Qualche spintone e qualche parola di troppo e per poco i due non sono venuti alle mani proprio in Transatlantico. A dividerli è stato il deputato del Pdl, Simone Baldelli. Ad arrabbiarsi anche Fabio Granata che è andato da Baldelli per far presente l'assurdità dell'accusa. «Dite a Berlusconi che se manda avanti questi personaggi finisce male...», è stato lo sfogo di Lo Presti. «Forse si sono estesi i finiani...» ha scherzato il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, commentando la sconfitta del governo a Montecitorio sul ddl lavoro. Tra i banchi della Lega mancavano undici dei 60 deputati. Centosettanta i deputati di opposizione presenti su 205: dodici erano in missione e 23 gli assenti. Dei 24 deputati dell'Idv, 20 hanno partecipato al voto.

ARTICOLO ACCANTONATO - Dopo lo scivolone della maggioranza, l’Aula ha approvato la richiesta del relatore Guliano Cazzola di accantonare l’articolo 31, alla luce del fatto che la commissione Lavoro non è ancora riuscita ad accertare l'impatto dell'emendamento sulla normativa. Contraria l’opposizione che ritiene l'articolo 31 «il cuore del provvedimento». L’accantonamento dell’articolo in questione dovrebbe comportare un cambiamento del calendario dei lavori sull’intero provvedimento. «È chiaro che non chiuderemo stasera l'esame degli emendamenti e che domani non ci sarà il voto finale sul provvedimento, come era stato deciso informalmente dai gruppi parlamentari. E questo per una tardiva prova di forza della maggioranza», ha sottolineato il deputato del Pd Roberto Giachetti sottintendendo un'azione ostruzionista dell'opposizione.

L'EMENDAMENTO DAMIANO - L'emendamento del Pd passato per un solo voto alla Camera muterebbe radicalmente le modalità dell'arbitrato rispetto a quanto previsto dal testo originario. L'emendamento, al comma 9 dell'art.31, lì dove si parla di ricorso all'arbitrato per la risoluzione di controversie, sostituisce infatti con «insorte» la precedente formulazione «che dovessero insorgere». Attraverso questa apparentemente piccola modifica la frase diviene: «Le commissioni di certificazione accertano la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie insorte in relazione al rapporto di lavoro». In questo modo, il lavoratore potrà o meno scegliere l'arbitrato solo dopo che la controversia sarà sorta e non all'inizio del suo rapporto di lavoro. Era un aspetto non modificato nel nuovo testo messo a punto dopo il rinvio alle Camere del provvedimento da parte del presidente della Repubblica. Erano però stati inseriti nel testo alcuni nuovi «paletti», in particolare che la clausola compromissoria non potesse essere sottoscritta prima della fine dell'eventuale periodo di prova o prima di 30 giorni dalla firma del contratto. Altro paletto aggiunto è l'impossibilità di utilizzare l'arbitrato in controversie relative al licenziamento.

martedì 27 aprile 2010

The return

... of Tony Stark

Codacons

Chissà se il codacons farebbe tutto questo casino se invece della statua del papa ci fosse un "bel" minareto con tanto di megafono per il  richiamo alla preghiera. Perchè poi, tra il dire e il fare c'è sempre di mezzo il mare, e quando si tratta di islamici, in tanti tacciono.


In molti luoghi d’Italia, e nel mondo, si moltiplicano le statue di Papa Giovanni Paolo II, futuro beato, anzi, per moltissimi già santo. A grande richiesta dei devoti. Invece a S. Andrea del Garigliano, comune di circa 1.600 abitanti in provincia di Frosinone, le cose sembrano andare in altro modo. Alcuni residenti, infatti, si sono rivolti al Codacons, protestando contro la collocazione di una statua, raffigurante appunto papa Wojtyla, al centro di una piazza comunale. Perché? Perché, leggiamo dal comunicato del Codacons, «non è tollerabile costringere un cittadino a convivere quotidianamente con una immagine religiosa innalzata davanti le finestre di casa, indipendentemente dalla religione cui appartiene l’icona!» Insomma, continua il comunicato, «la statua potrebbe arrecare fastidio per forma, colore, dimensioni o altro, ma potrebbe anche essere sgradita per meri motivi di credo e, in tal caso, andrebbe tutelata la sensibilità religiosa di chi è costretto a ritrovarsela tutti i giorni davanti le finestre».

Insomma, la statua può dare fastidio, con la sua solo presenza, ai poveri cittadini che sono “costretti” a vedersela giorno e notte davanti alle finestre. Certo, seguendo questo principio, potrebbero sentirsi in dovere di lagnarsi anche coloro che hanno la sfortuna di abitare in un palazzo le cui finestre si affacciano su un campanile, una chiesa, un istituto religioso, e sentirsi così offesa da questo spettacolo dal contenuto così inequivocabilmente religioso, anzi cattolico.

L’obiezione finale espressa dal Codacons è che, tra le altre cose, «l’opera è stata eretta solo di recente, mentre le abitazioni limitrofe esistevano già da anni», quindi, in fondo, i campanili, le chiese, gli istituti religiosi – che in genere sono gli edifici più antichi di città e paesi – dovrebbero essere al riparo da proteste e rivendicazioni in nome delle libertà laiche.

Caterina Maniaci