mercoledì 30 settembre 2009

Stone angel


Angel of Grief - Cimitero Acattolico, Roma. Foto di @ Eleonora

"Angel of Grief" è l'ultima opera creata dallo scultore americano William Wetmore Story, nato a Salem nel 1819, e trasferitosi in Italia nel 1848. Il monumento funebre è in memoria della sua amata moglie Emelyn e si trova nel Cimitero acattolico di Roma. Lo ha terminato poco prima di morire; Story è sepolto insieme alla moglie ed al loro piccolo figlio Joseph. Angel of Grief (L'angelo del dolore) è una stupenda scultura in marmo e pietra. L'angelo è inginocchiato davanti a un piedistallo, con la testa appoggiata sul suo braccio, mentre piange con il volto nascosto. La sua mano penzola impotente oltre il fronte del piedistallo, e la curvatura delle dita così ben dettagliata conferisce un'incredibile sensazione di tristezza e di vuoto all'intera parte frontale della scultura. Alcuni fiori di pietra sono sparsi alla base del piedistallo, come se l'angelo li avesse fatti cadere attanagliato dal dolore in un momento di sconforto. Anche le ali, che normalmente si ergerebbero alte, diritte e fiere, sono tristemente curve e piene di grazia sulla schiena dell'angelo, dando l'impressione che abbia perso la speranza. Il corpo si è come abbandonato totalmente al suo dolore e la sensazione che trasmette l'opera è di straziante umanità.

Colpo di stato?

Ripensandoci... non è proprio una certezza... ma quasi.

Le donne secondo Gad

Se a Gad non piacciono le belle donne di Roberto Levi

Ha preso il via la nuova stagione de L’infedele (lunedì su La 7, ore 21,10) e Gad Lerner ha scelto per argomento il corpo delle donne e il suo massiccio uso televisivo addebitato in toto, come era facile prevedere, al «modello berlusconiano». La conduzione della puntata era contrappuntata dai continui sorrisini del conduttore e da ripetuti sberleffi sarcastici ogni qual volta qualcuno degli ospiti esprimeva un’opinione in contrasto con i suoi ferrei convincimenti. Alla fine si è dato da solo il voto: «È stata una trasmissione vivace». Avrebbe potuto esserla di più se Lerner avesse voluto uscire dal seminato della tesi precostituita non certo per cambiare la sua lecita opinione in materia, ma per arricchire la puntata di domande, riflessioni e provocazioni tali da renderla meno prevedibile e convenzionale. Non richiesto, come al solito, provo a suggerirgli un veloce prontuario per una delle prossime puntate sullo stesso tema.
1) Ricordarsi di chiedere alle veline, soubrette e aspiranti artiste che mostrano il loro corpo in tivù se lo fanno sotto tortura, minacciate, vessate o obbligate. In seconda battuta, se hanno davvero voglia di essere difese dall’esterno da chi presume di doverle sempre trattare da ingenue sottomesse anziché come persone in grado di intendere, volere e decidere cosa fare della loro vita, dando per scontato che sarà poi la vita stessa a stabilire se hanno fatto bene o male.
2) Far confezionare con solerzia da qualche collaboratore un esaustivo servizio che chiarisca se la predisposizione di molte donne ad accompagnarsi al potere e alla ricchezza maschile, cercando scorciatoie legate alla propria capacità seduttiva, sia da far risalire come ogni aspetto di questo paese alla discesa in campo di Berlusconi o possa essere coraggiosamente retrodatata almeno di qualche anno. Nel dubbio, chiedere agli antichi greci.
3) Invitare in studio, preceduta dalla didascalia «Per non dimenticare», Lilli Gruber. Dopodiché domandarle, senza tanti preamboli, che differenza sostanziale ci sia tra una velina che mostra parti del proprio corpo sopra una scrivania e una conduttrice di tiggì di nobile etnia sinistrese che per dare delle notizie sentiva il dovere di mostrare, dietro una scrivania, un labbrone rifatto a mo’ di tangenziale sopraelevata e una postura ammiccante modello: mi si nota di più se mi faccio inquadrare di sbieco da questa parte o da quest’altra? In caso di risposte reticenti, o aggressive, domandarle se fu una scelta estetica succube del modello berlusconiano o un libero capriccio del proprio Ego femminile.
4) Come atto di estrema umiltà, particolarmente apprezzato dai telespettatori, informarsi presso chi ha avuto qualche esperienza erotica in più di lui se è proprio vero che le donne non amino sentirsi, all’occorrenza, delle «prede». E se il piacere di essere prese e conquistate sia davvero cosa così sconveniente e slegata dal loro immaginario erotico.
5) Fare una classifica dei veri soprusi subiti dalle donne nella vita quotidiana, e una volta accertato che dopo infiniti e sterili bla bla si sia dovuto attendere un governo di destra per varare la legge sullo stalking, ricordarlo al proprio pubblico non senza un ultimo ghigno sarcastico, questa volta rivolto a se stesso.

Mezzaluna24ore

Il Sole tramonta a sinistra.

La mutazione genetica del Sole 24 Ore prosegue inarrestabile. Trattasi di rivoluzione culturale, poiché tutto ha inizio dal prestigioso inserto domenicale del quotidiano di Confindustria. Il quale, inesorabilmente e neppure troppo lentamente, sta cambiando testata. Ecco nascere sotto gli occhi dei lettori - che si suppongono essere affermati professionisti, finanzieri, imprenditori - La Mezzaluna 24 Ore. La conferma è un bell’articolo a tutta pagina comparso due giorni fa, che strizzava più di un occhio all’islam. Ma andiamo con ordine. Il numero zero del “nuovo giornale” l’avevamo letto il 30 agosto scorso, quando le pagine culturali del foglio diretto da Gianni Riotta (che agli albori della carriera frequentò la redazione del Manifesto) titolarono in prima pagina «invidia del Ramadan», spiegando che il digiuno rituale dei musulmani è «una prova di forza e coerenza che sconcerta i cattolici». I quali cattolici non possono fare altro che sciogliersi nell’incondizionata ammirazione. Peccato che poi l’articolo sottostante di Pascal Bruckner - come scrisse Andrea Morigi su queste pagine - sostenesse tutt’altra tesi: non a caso si tratta del filosofo che da anni bacchetta la mania - tutta occidentale - di autocompiangersi e virare sul terzomondismo per eliminare il senso di colpa verso i “dannati della Terra”. Insomma, l’invidia per il Ramadan la sentivano solo al Sole, pardon, alla Mezzaluna. A corredo di quel pezzo c’era pure un’intervista al Gran Muftì di Bosnia, Mustafà Ceric, il quale tutto soddisfatto affermava: «La storia dimostra che l’islam ha contribuito in maniera determinante alla nascita dell’Umanesimo e del Rinascimento europei. Basti pensare alle opere dei filosofi musulmani del XII secolo, per esempio ad Averroè e al suo razionalismo». Già, peccato che quando uno studioso francese, Sylvain Gouguenheim, ha provato ad avanzare qualche dubbio sull’effettivo apporto dell’islam al risveglio della cultura europea sia stato accusato di “islamofobia” e zittito. Persino il titolo del suo libro, in edizione italiana Rizzoli, è stato stravolto, rigirato in senso pro-musulmano. Veniamo a domenica scorsa. Nicla Vassallo firma un articolone intitolato: «Se il velo ritorna di moda», nel quale si spiega che il nuovo trend in voga fra le giovani musulmane è quello di coprirsi il capo. Nel testo si smontano alcuni «pregiudizi». Ovvero: «La donna ineluttabilmente schiava della propria cieca fede “maschilista”, la donna simbolo di una religione misogina che si esprime innanzitutto nel Corano (ma è davvero così?), la donna per cui la sessualità si elegge senza eccezione a tabù, la donna che occorre affrancare da leggi ultrapatriarcali». L’autrice ammette che «è vero, quando il velo è burka, si nasconde il volto delle donne attraverso una sorta di maschera, il che significa negare loro un volto umano». Ma neppure questa è una discriminazione. Infatti «non è solo il volto a conferire umanità alle donne, bensì qualcosa di assai più complesso». Provate adesso voi a convincere vostra moglie a girare con un passamontagna, dopo averle spiegato: cara, anche se ti oscuri completamente il viso sei femminile lo stesso, lo dice l’inserto culturale più importante d’Italia. Quanto alla cultura patriarcale, basta scorrere le pagine dei quotidiani e fermarsi su quelle dedicate alla giovane Sanaa, massacrata dal padre perché si comportava da occidentale. La madre della ragazza (che non occorre «affrancare da leggi ultrapatriarcali», perché son tutti pregiudizi) ha pure difeso l’assassino. Ma l’approdo a posizioni da sinistra radicale sulla questione islamica non è l’unica caratteristica delle pagine rosa dirette da Gianni Riotta. Il giornale confindustriale, alla faccia dei padroni, tede un po’ anche al rosso. In questo caso la testata viene sostituita: via La Mezzaluna 24 Ore, spazio al Il Sole dell’avvenire (no, Dino Boffo non c’entra). C’è posto anche per le requisitorie dei precari, rappresentate (sempre domenica 30 agosto) dal cantante della rockband alternativa e radical chic Baustelle. Francesco Bianconi, questo il nome del musicista, ha invitato «gli intellettuali che possono permetterselo, cioè quelli affermati» a lasciare l’Italia, tetro feudo berlusconiano.L’idea è stata fatta propria dal sito scrittoriprecari.wordpress.com e rilanciata sul Sole da Marco Filoni, secondo il quale «bisogna ascoltare questi giovani» e accodarsi al consueto piagnisteo intellettuale sull’andarsene o meno dal Paese. Il fatto è che poi nessuno parte, tutti preferiscono rimanere e indignarsi. Come si spiegano queste prese di posizione del quotidiano di Confindustria? Forse hanno ascoltato la canzone di successo dei Baustelle intitolata Il liberismo ha i giorni contati. E si preparano alla nuova era.

Immigrazione

Gli stranieri preferiscono la pensione a casa loro o la cittadinanza in Italia? di Carlo Panella

Si faccia un sondaggio, un’inchiesta seria tra gli immigrati. Lo si faccia in tempo di crisi e in tempo di vacche grasse, e gli si chieda: preferisci la cittadinanza automatica per chi nasce in Italia, il diritto a chiederla dopo 5 anni e non 10; oppure preferisci la garanzia che se sei disoccupato, ti si paghi la disoccupazione nella banca o all’ufficio accanto a casa tua nel paesino da cui vieni e così per la pensione? Insomma, la tua ambizione è quella di diventare cittadino italiano, oppure di vivere in Italia per quanto ti serve a lavorare e poi tornare a goderti la vecchiaia e la pensione a casa tua, dove hai le radici? Lo si faccia. Si avranno delle sorprese e si uscirà dalla incredibile cappa ideologica, sentimentale (e strumentale) che ha il dibattito sulla cittadinanza – come tutto quanto attiene all’immigrazione - nel nostro paese. Lo si faccia, e ci si accorgerà che gli immigrati sanno benissimo cos’è un volo low-cost, che hanno tutti il cellulare, che in proporzioni incredibili si spostano rapidamente da un paese d’Europa all’altro. Si scoprirà, insomma, che sanno perfettamente far uso della globalizzazione, che tra loro e i nostri minatori di Marcinelle (a loro è ferma l’analisi della sinistra italiana e purtroppo anche di certa destra), c’è la stessa differenza che passa tra una macchinetta fotografica a fuoco fisso e pellicola Kodak e le nostre di oggi con mega giga di memoria e straquintalioni di pixel. D’altronde, basterebbe lasciare l’atteggiamento pietistico, o ideologico, o moralistico (o strumentale, com’è la legge presentata oggi) che caratterizza l’approccio ai temi dell’immigrazione della sinistra (e purtroppo, ora, anche di parte della destra) e ci si accorgerà che per centinaia di migliaia di immigrati in Italia, il tema vero, urgente, è di essere aiutati nella rotazione del loro lavoro e quindi della loro collocazione, non certo ottenere la cittadinanza. Si scoprirà che ben 300.000 immigrati sono tornati in patria dalla Spagna a seguito della crisi e che una cifra simile di immigrati ha lasciato l’Italia. Non disponiamo di cifre, ovviamente – così si può astrologare sul tema - ma sappiamo che le rimesse degli immigrati dall’Italia sono diminuite del 10%. 4 milioni sono gli immigrati, diamo pure spazio ad un restringimento delle singole rimesse, ma il resto della diminuzione deve essere dovuto al fenomeno del ritorno (o dello spostamento in altro paese). La domanda è facile: cosa sarebbe servito a loro avere la cittadinanza? Solo a stare da disoccupati in Italia. Ma è meglio ricevere l’assegno di disoccupazione in Italia –con i costi del nostro paese- o in patria (dove vale tra le 5 e le 10 volte di più in potere d’acquisto?). Dunque, l’urgenza assoluta è quella di interventi forti (in larga parte puramente amministrativi –che mancano - non normativi), per aiutare gli immigrati nella rotazione e nella mobilità, con la certezza che questa è la prima, assolutamente la prima necessità. E’ da dilettanti, è sbagliato, non è cristiano, sostenere che il dovere nostro è di integrare definitivamente gli immigrati nella nostra società e non invece, fare di tutto, per garantire loro che dopo una dignitosa vita di lavoro in Italia – protetti dal nostro welfare - possano ritornare in vecchiaia là dove sono le loro radici e magari costruire lì, con i soldi accumulati in Italia, quel tessuto di piccole attività artigiane (e quelle abitazioni) che a milioni hanno costruito i nostri emigrati in Germania, Belgio e Svizzera che poi sono tornati a casa loro. Ma non basta guardare al mercato del lavoro, ai flussi reali dell’immigrazione per rifiutare un’impostazione tutta centrata sulla cittadinanza. L’autorevolissimo Cinanni, membro del Comitato Centrale del Pci e autore del migliore saggio sull’emigrazione italiana, spiegava che le nazioni hanno scelto lo ius sanguinis o lo ius soli non tanto in base a astratte tradizioni giuridiche, ma – semplicement e- a seconda che fossero in debito o in eccesso demografico. Tutto qui. Inghilterra (sì, anche l’Inghilterra), Usa, Australia e tante altre nazioni avevano bisogno di popolare il loro territorio e così sceglievano di regalare la cittadinanza a chiunque fosse nato sul loro suolo. I paesi di immigrazione, invece, come l’Italia e la Germania, hanno fatto la scelta opposta. Ora, dunque, l’Italia è in pieno eccesso demografico, è satura, non ha territori da popolare, ma ha un problema drammatico: i cittadini italiani hanno un saldo demografico negativo: muoiono più italiani di quanti non ne nascano. Il saldo diventa attivo solo grazie all’apporto degli immigrati. E’ dunque chiaro che concedere la cittadinanza a chi nasce in Italia, significa semplicemente avviare un processo che porterà di qui a qualche decina di anni a modificare il volto del nostro paese. L’Istat giudica che da qui al 2030 il rapporto tra immigrati e italiani sarà – senza modifiche della cittadinanza - di 1 a 5, 1 a 6. Se però tutti i figli degli immigrati saranno naturalizzati, gli italiani di origine italiana, nell’arco di un lungo periodo di tempo, non superiore al secolo, però, si avvieranno a diventare minoranza. La maggioranza degli abitanti l’Italia sarà di figli di immigrati o di immigrati. E’ un obiettivo auspicabile? Non credo. E’ un meccanismo che farebbe salire al calor rosso l’allarme che già oggi coinvolge strati crescenti di italiani, e non solo al Nord? E non solo elettori della Lega? Sì, di sicuro, con riflessi ben maggiori e ben più gravi del consenso che sicuramente il Pdl perderebbe se approvasse questa legge alle prossime elezioni regionali. E’ più auspicabile di una politica che porti gli immigrati e i loro figli a poter trovare un lavoro dignitoso nel loro paese? No, di sicuro. Infine, ma non per ultimo, è lecito chiedere a Gianfranco Fini, e a chi nel Pdl oggi si fa promotore o sponsor di questa legge, come mai, non più tardi di 18 mesi fa, ha alzato le barricate alla Camera e al Senato quando la sinistra di Sandro Gozi e Livia Turco, tentava di far approvare lo stesso cambiamento dello ius sanguinis con lo ius soli. La contraddizione è il sale della vita, spiegava Leonardo Sciascia, ma in questo caso, spiace, ma il dubbio della strumentalità rispetto a scopi che hanno a che fare più col riequilibrio dei poteri dentro il Pdl che col tema su cui si interviene normativamente, è molto, molto grande.

Cittadinanza

Cittadinanza. Quella proposta? Una mina per il Pdl

La proposta di legge presentata a Montecitorio in tema di acquisto della cittadinanza da Andrea Sarubbi, del Partito democratico, e da Benedetto Granata, del Popolo della libertà, ex Alleanza nazionale, ha tutte le caratteristiche - spiace dirlo - per essere considerata dall'opinione pubblica e dalla classe politica la classica iniziativa legislativa della discordia. È stata presentata il 30 luglio scorso e il presidente della Commissione affari costituzionali della Camera, Donato Bruno, nella seduta del 16 settembre non ha fatto altro che accorparla alle tante altre. È bene sapere infatti che la proposta di legge in questione non ha il pregio dell'originalità. Un po' perché si aggiunge buona ultima alle altre concernenti il medesimo argomento. E un po' perché a grandi linee ricalca la proposta di legge Bressa e altri. Tutti, quando si dice il caso, rigorosamente appartenenti al Partito democratico.Presentata solo di recente, la creatura legislativa scritta a quattro mani da Sarubbi e Granata, per la serie «attenti a quei due», è stata discussa prima ancora che fosse stampata. E i rilievi mossi dal centrodestra, o per meglio dire dalla sua parte maggioritaria, sono di forma e di sostanza. Sotto il primo riguardo Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri ha osservato - a costo di apparire fin troppo ingenuo, secondo le sue stesse parole - che gli piace credere che, «poiché circa il modo come si diventa cittadini della Repubblica è bene che siano d'accordo il maggior numero d'italiani, una volta tanto esponenti della destra e sinistra lo abbiano capito, e una volta tanto abbiano agito di conseguenza». Fatto sta che l'autore dell'articolo prende un granchio grosso così. Sia chiaro, la dialettica parlamentare è sempre auspicabile. È bene che dalla tesi degli uni e dall'antitesi degli altri scaturisca una sintesi. Opera di una maggioranza più ampia di quella ministeriale. Ma una cosa è il traguardo e altra cosa disporsi ai nastri di partenza. In quest'ultimo caso, salvo che si tratti di cosucce dozzinali o di iniziative assolutamente personali che lasciano il tempo che trovano, ogni gruppo parlamentare si presenta in campo con le proprie bandiere. Belle o brutte che siano. Qui invece andrebbe scimmiottata la frase usata dal tenentino Alberto Sordi nel colloquio telefonico con il suo superiore all'indomani del tragico 8 settembre. La sensazione, magari sbagliata finché si vuole, è che un americano e un tedesco, cioè Sarubbi e Granata, si siano messi d'accordo per forzare la mano, se non addirittura per inguaiare di brutto un centrodestra che è assai più tiepido del centrosinistra nel concedere con una certa larghezza la cittadinanza agli immigrati extracomunitari. Questa iniziativa legislativa, intendiamoci, a leggerla con la dovuta attenzione è meno scandalosa di quanto possa apparire. Da una parte persegue l'obiettivo dell'integrazione e dall'altra non fa propria la logica del todos caballeros. Un cavalierato che, come un sigaro, non si nega a nessuno.E pur tuttavia solo chi è di una ingenuità disarmante, o peggio vagheggia nuovi scenari a tutt'oggi imprevedibili, con ogni probabilità un salto nel buio, può perorare oggi come oggi la causa di una simile iniziativa legislativa. Una mina che se non disinnescata a dovere e messa per il momento in un cassetto, può far saltare in aria la maggioranza e con essa il governo. Ai tonti e ai finti tonti in servizio permanente effettivo ci permettiamo di rivolgere una semplice domanda: a chi giova?

martedì 29 settembre 2009

La scorta

Ora paghiamo la scorta al sacerdote no global che insulta i parà morti di Giacomo Susca

Le crociate atto secondo, la carica dei preti d’assalto. In una mano il turibolo, nell’altra il megafono. Oro, incenso e rissa. Predicano la pace, intanto loro scatenano il finimondo. In principio c’era don Giorgio De Capitani, anni 71, sacerdote di Monte di Rovagnate di Lecco. Armato di blog, ha dichiarato guerra ai soldati italiani. Perché se in Afghanistan una bomba fa strage di parà, per lui vanno bollati come «mercenari pagati dal governo» e, già che c’è, spara a zero sul ministro La Russa. Insomma, se quanto a pietà non sembra proprio un esempio di devozione cristiana, va decisamente meglio col perdono. Proprio quello che gli ha concesso il cardinale Dionigi Tettamanzi, che si sarebbe limitato a un invito a smorzare i toni. Un rimprovero ufficiale sarebbe stato troppo severo. «Sì - minimizza don Giorgio - mi ha chiesto solo di moderare il linguaggio, nulla più». Per completare l’assoluzione, è pure giunto in suo soccorso il vicario episcopale di Lecco, monsignor Bruno Molinari: «La sua è una voce profetica...». In effetti un po’ invasato era sembrato. Qual è il colmo per un curato indiavolato con le forze armate? Passare tutto il (santo) giorno con degli uomini in divisa. Per carità, nessuno vuole arrestare don De Capitani causa vilipendio. Anzi - riporta Il Giorno -, la questura ha pensato bene di concedergli la scorta : dopo quello che ha detto e scritto ci sono «fondati timori» che possa essere aggredito. E scusate il disturbo. Tanto paghiamo noi. Un girotondo in abito talare. A volte cambi una vocale ma il pasticcio rimane. Se a Lecco è la politica, a Lecce è la fabbrica a valer bene una messa. Da celebrare in mezzo agli operai, s’intende, in cima al municipio di Tricase, con la benedizione del sindacato. Don Raffaele Bruno e don Stefano Rocca hanno celebrato il sacrificio... dei cassintegrati del calzaturificio Nuova Aldelchi e di altri 500 lavoratori in lotta contro i tagli. «Colpa dei padroni». Già, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Purché non sia un mattone abusivo. Don Paolo Farinella, il ribelle convertitosi a Micromega, il vangelo secondo la sinistra, s’atteggia a custode della rivelazione. Dall’antico Testamento al moderno catasto: «Non ho giurato fedeltà al cardinale Tarcisio Bertone che oltretutto ha ristrutturato una sua casa fuori dal piano regolatore». Scherzi da preti. Del resto padre Farinella ammette di non appartenere «a questa Chiesa», con la maiuscola. Molto meglio quella di San Torpete a Genova. Vuoi mettere, la domenica sali sul pulpito e offendi il segretario di Stato vaticano. In alternativa, t’inventi un funerale: «Dedico la messa alla morte dell’informazione italiana». Lettera ai fedeli: di questi tempi, tanto vale farsi confessare da Travaglio...

Colpa di Mister B.

Fuori dal coro Margherita Buy: «Siamo attaccabili e se continuiamo così...». «Moda da veline, colpa di Berlusconi». Ma tutto il comparto insorge: è un attacco contro il made in Italy, inaccettabile. La Santanché: offesa come italiana

MILANO - Che la moda americana vada male? Che quella inglese vada peggio? Il dubbio sorge spontaneo dopo le parole scritte da Susy Menkes, idolatrata giornalista dell'Herald Tribune (non c'è stilista che non stenda tappeti rossi al suo arrivo!) nel suo ultimo pezzo dove già dall'incipit si poteva capirne il tono.

L'ATTACCO AL PREMIER - «Ci sono abbastanza vestiti impertinenti, sfrontati e sexy in questa città per alimentare uno dei party del presidente Silvio Berlusconi. In effetti, "Viva la Bimbo" (coniato un nuovo termine? nda) sembra essere il grido di battaglia di questa moda per l'estate 2010 - ma gli italiani usano il termine "veline" per descrivere le ragazze bollenti, esibizioniste, presentatrici televisive poco vestite che il signor Berlusconi ha inventato come magnate della televisione». E via dicendo. Il titolo, poi, non lascia altre interpretazioni: «Tutta colpa di Berlusconi».

COLPITO IL MADE IN ITALY
- Il tutto si riassume come un gravissimo attacco al made in Italy e alla moda italiana in genere. Forse la signora Menkes non ha mai saputo che da un sondaggio Milano è stata indicata ufficialmente quale «capitale mondiale della Moda» dall'associazione non-profit americana (ma dai!) Global Language Monitor di Austin, Texas, che ha stilato la classifica, come ogni anno, monitorando la frequenza di parole chiave relative alla moda nei media tradizionali, su internet e nei blog a livello internazionale. Come a dire che Milano fa rima con Moda nell'immaginario collettivo mondiale. Un tentativo di distruggere un primato? La voglia di fare politica attraverso i vestiti? Si può fare ciò che si vuole con una penna in mano. Lo fanno in tanti. Ma si può contestare una sfilata (e sarebbe meglio contestarne di più!) ma non un intero settore che per il nostro paese significa 70 mila imprese, un saldo attivo della bilancia commerciale di 16 miliardi di euro e, soprattutto, 700 mila addetti! Alle sfilate, comunque, non si parlava d'altro.

«TEORIA DELL'ODIO» - «Sorprendente, ingiustificato - ha detto Mario Boselli, presidente della Camera della Moda Italiana -. Ho assistito a più di cinquanta sfilate e mai come quest'anno la qualità era eccelsa. Tanto stile, tanta misura, nessuna esagerazione criticabile. La realtà è che questa è una competizione tra fashion week: quella di NY male, Londra non ha brillato. Ciò scatena i peggiori sentimenti». «Sono offesa come italiana - ha commentato Daniela Santanchè, in prima fila da Mariella Burani e da Fisico - la moda è occupazione, esportazione, prodotto interno lordo, ha offeso migliaia di famiglie. Vince sempre la teoria dell'odio contro un Paese che internazionalmente sta diventando sempre più centrale. Il primato della moda, nessun giornale al mondo potrà toglierlo all'Italia e agli italiani».

«SIAMO ATTACCABILI» - Non manca il contraltare. L'attrice Margherita Buy, da Kristina Ti non concorda ma giustifica: «Siamo facilmente attaccabili e continuando a comportarci come ci stiamo comportando le cose non possono che peggiorare». Renata Molho, autorevole penna del Sole 24 Ore: «E' senz'altro una moda da donna decorativa, possibilmente immobile così preoccupata di non cadere dai tacchi da non poter parlare». Benedetta Barzini, scrittrice: «Suggerirei ulteriori indumenti perché così com'è e incompleta: bisogna vestire il vestito». Beppe Modenese, presidente onorario di Camera Moda: «Non sono d'accordo, è una moda giovane e spiritosa. Forse hanno esagerato con questa ventata di giovinezza ma è fresca e allegra». Certo che la signora Menkes, se aveva perso in visibilità, ecco che, in un attimo, si è ritrovata sotto i riflettori. «Nemmeno una dichiarazione corrisponde alla verità - ha sottolineato Nancy Brilli da Laura Biagiotti- penso che se in Uganda piovesse rosso sarebbe colpa di Berlusconi».

GLI STILISTI
- E Laura Biagiotti stessa la vede come «un attacco all'Italia, colpire la moda significa colpire tutto il made in Italy». E sono proprio gli stilisti a difendere il loro prodotto. «Dovremmo tutti insieme rimboccarci le maniche - incalzava Cristina Tardito stilista di Kristina Ti - e lavorare per il nostro Paese che è davvero bello. L'analisi della Menkes l'ho trovata superficiale, banale e riduttiva perchè è una critica facile e non me l'aspettavo da una donna come lei. Ci sta la critica se è costruttiva e questa non lo è. La Menkes si vada a vedere tutte le sfilate italiane e poi parli». Cristina Ferrari di Fisico non ha mezzi termini: «Veline e escort ci sono pure in America e direi in ogni parte del mondo. Ma noi rimaniamo la cultura, la base, la ricchezza della moda di tutto il pianeta. I più grandi couturier sono italiani e ce li invidiano tutti». La signora Menkes, per essere credibile, avrebbe dovuto parlare di moda e non di altro. La moda italiana non è moderna, non è nuova, non è creativa, puzza di stantio? Allora bisogna avere il coraggio di dirlo. «Ma così non è stato - incalza Katia Noventa conduttrice di trasmissioni di moda da Frankie Morello - è solo una chiara provocazione perché il nostro made in Italy è inattaccabile. Prima la competizione era tra Italia e Francia mentre ora ci si è aggiunta l'America».

Paola Bulbarelli

lunedì 28 settembre 2009

Certe donne

Quando le donne sbertucciano se stesse di Maurizio De Santis

La parabola esistenziale del femminismo planetario ricorda maledettamente il nichilismo che, ad un certo punto, pervase la civiltà Bizantina. Ricorderete. Mentre la “crema culturale” di Costantinopoli dissertava sul sesso degli angeli, le armate turche avevano ragione delle mura della città e dei loro estenuati difensori. Forse frustrate dal disastroso andazzo dei labour, le donne inglesi sinistrorse (anima del femminismo britannico), hanno trovato il modo di richiamare l’interesse mediatico. Nella migliore tradizione del feroce femminismo anni settanta, hanno denunciato un oscuro piano misogino, perpetrato dall’immarcescibile lobby dei maschi. Cribbio! (penserete voi). Finalmente una seria presa di posizione contro il Burqa o l’opprimente condizione delle donne musulmane immigrate nel Regno! Sintesi della denuncia: "Perché gli uomini indossano scarpe comode e sicure quando vanno a lavorare, mentre le donne devono stare in equilibrio su tacchi troppo alti, che oltretutto possono causare seri danni alla salute?". Pletore di “maschietti” si guardano smarriti. “I tacchi sarebbero imposti da noi?!!”… Quasi tutti cominciano a sospettare di essere sposati, conviventi, o accoppiati (fate vobis), con una donna “anomala”. “Io truce eversore di quella?”Quella”, sarebbe il soggetto femminile con il terribile vizio di incollarsi alle vetrine che espongono il trionfo del tacco. A questo punto, conosco anch’io solo donne “anomale”. Che i tacchi se li cercano, li scovano e li celebrano, calzandoli da sole. Senza essere obbligate dal perfido maschio, così feticista, sadico e contorto, ad ostentare caviglie abbarbicate sopra improbabili trampoli. Donne come la deputata conservatrice britannica Nadine Dorries che, preoccupata di aver scelto i tacchi, senza essere obbligata da qualche fallocrate assatanato, ha detto: “Sono alta un metro e 54 e ho bisogno di centimetri in più per poter guardare i miei colleghi negli occhi e non passare inosservata al parlamento di Westminster”. Non conosco soggetti come la sindacalista Mary Turner, della Gmb Union: “Se per sentirsi all'altezza dei suoi colleghi maschi ha bisogno di mettere i tacchi, ci fa pietà. Noi al Gmb siamo abituate a stare in piedi da sole”. Per prodigarsi poi a perorare la causa della scarpa bassa, definendo i tacchi a spillo uno “strumento maschilista”. Giusto! Se i maschietti cercano centimetri, provvedessero piuttosto a procurarseli in “quel posto lì”. Almeno farebbero un bel piacere alle lady godive. Saremmo noi, inetti al tramonto, a sviluppare curiose asimmetrie commerciali, che fanno sì che tre quarti degli spazi di ogni negozio di scarpe, vestiti e profumi sia dedicato solo a loro: le donne. Ma, le sindacaliste britanniche, in fondo, seguono i prodromi della cronaca… Non ciarlano a caso. Sanno bene che alla Provincia di Modena, una mente illuminata ha emanato un libello, orientato a proibire i tacchi sul luogo di lavoro. Ma Modena è una tappa. Per le femministe, evidentemente, il sogno resta la Malesia. Dove alle donne è stato proibito di indossare scarpe alte. Ma essendo musulmani (dunque, ancor più previdenti), hanno pure proibito alle donne di truccarsi. Perché, si sa, trucco e i tacchi alti scatenano gli istinti primordiali dell’uomo, “favorendo” stupri e molestie sessuali. Insomma, un clamoroso ritorno ai “mutandoni” della nonna… Il passo successivo potrebbe consistere nel proporre il Burqa sul posto di lavoro. Metterebbe al sicuro le donne da ogni istinto troglodita maschile. Un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione.

Unione europea

Cittadinanza e immigrazione: le colpe dell'Europa

Rispondendo a un ascoltatore che si lamentava del ponziopilatismo della Comunità Europea sul problema degli immigrati che sbarcano a frotte sulle nostre coste, Massimo Teodori, conduttore—va detto, con grande equilibrio—della rubrica radiofonica ‘Prima Pagina’, ha fatto rilevare (giustamente) che quel problema non rientra nelle competenze delle istituzioni europee. Sennonché è proprio questa la tragedia dell’Unione europea, la sua incapacità di mettere mano alle sfide epocali che investono le nostre società: in questo caso, la prospettiva di trasformazioni sociali ed etno-culturali che minacciano di stravolgere le nostre tradizioni, i nostri costumi e, alla lunga, le leggi e le istituzioni—dal momento che leggi e istituzioni vengono sempre plasmate da quelli che Tocqueville definiva i ‘moeurs’. Tali trasformazioni possono essere buone o cattive, auspicabili o comunque ritenute inevitabili: in ogni caso, non possono venir lasciate al caso ma vanno sottoposte al popolo sovrano (forse non è inutile ricordare che siamo in democrazia) che, attraverso i suoi rappresentanti, è chiamato a decidere ‘quanto’ e ‘quale’ mutamento è disposto ad accettare e quali costi intende sostenere. Non abbiamo ancora lo stato federale europeo (se mai ce l’avremo) ma una parte sempre più estesa delle leggi che regolano le nostre vite e i nostri rapporti sociali non dipendono più dai governi e dai parlamenti nazionali. Un’immensa, vorace, burocrazia—gli esperti, che nessun giornale intervista, sanno che, in certi settori, il suo grado di corruzione raggiunge livelli tali che al confronto il Palazzo dei Normanni è abitato da una confraternita di arcangeli—legifera, s’impiccia, mette vincoli, fissa regole di buona condotta, produce materiali di studio per centinaia di nuove cattedre universitarie, - cui si aggiungono, piovute da Bruxelles, le cattedre Jean Monnet -, assegna migliaia di borse, finanzia ogni giorno un convegno su ‘quanto s’è fatto e quanto resta ancora da fare’, ma si dichiara impotente in fatto di immigrazione extracomunitaria e si guarda bene dal far pressioni sugli organi competenti—ministri e commissari designati dagli stati membri—perché si rivedano, su un punto così cruciale, i Trattati e se ne estendano le materie. Dinanzi all’urgenza di una legge europea sull’immigrazione, gli eurocrati si trincerano comodamente dietro le normative vigenti e i loro limiti. Gli stati nazionali hanno perduto la pienezza della loro sovranità ma nessun super-stato europeo l’ha acquisita. Siamo in un limbo—potremmo dire, ironicamente, che siamo entrati nell’era del ‘postmoderno’ in politica—in cui ciò che giustifica la nascita dello ‘stato moderno’ e ne legittima la maggior presa sui sudditi divenuti cittadini, a cominciare dallo [ius pacis ac belli], in sostanza, non fa più capo ad alcun organo sicché al potere vessatorio, che hanno le autorità comunitarie sull’agire economico, sulla vita culturale, sui diritti individuali delle nostre società civili, non corrisponde nessun servizio ‘fondamentale’. Anche perché non ci sono eserciti e forze pubbliche europee al servizio di un governo federale, eletto da tutti i cittadini del continente, ristretto nel suo ambito di sua competenza ma in tale ambito fortissimo—giusta la teorizzazione degli immortali autori del ‘Federalist’. Ci troviamo in mezzo al guado con la sensazione penosa che vi rimarremo a lungo e che, nel frattempo, altri stati e altri continenti scriveranno la storia del mondo—e non certo per il piacer nostro. Per di più, avendo adottato il registro dell’ipocrisia, non riusciamo neppure a vedere che ormai le vite degli europei sono così intrecciate che ogni decisione nazionale, in fatto di cittadinanza, ha ricadute incontrollabili sull’intera comunità. E’ il caso della ‘fraternité algerina’ che ha indotto Sarkozy a concedere la cittadinanza francese a tutti gli algerini nati prima del 1962 (sul senso di questa politica, v. il bell’articolo di Gaetano Quagliariello, ‘L’Eliseo raccoglie l’eredità di Charles De Gaulle’ - ‘Libero’26 settembre u.s.), una misura che potrebbe riversare in Europa centinaia di migliaia, se non qualche milione, di ex cittadini del territorio metropolitano d’oltremare. Quanti come me, in gioventù, erano culturalmente liberali e politicamente socialriformisti e federalisti, grazie all’Europa, a questa Europa, hanno fatto tre grandi scoperte:
a. il federalismo è compatibile col vampirismo di apparati di governo elefantiaci, irresponsabili e costosissimi (quante conferme alle diagnosi pessimistiche del grande Friedrich Hayek che allora consideravamo un bieco conservatore!) ;
b. lo stato nazionale non [necessariamente] è nemico del liberalismo e della democrazia (il paese più diffidente nei confronti delle attuali istituzioni europee, non a caso, è il paese che ha inventato il liberalismo moderno, l’Inghilterra);
c. il liberalismo ha bisogno della democrazia per non essere castrato dal non casto connubio tra tecnocrati e giuristi, gli uni e gli altri timorosi, ‘et pour cause’, dell’immaturità ovvero dell’indisponibilità delle masse a venir tartassate per la gioia dei Padoa Schioppa, dei Romano Prodi e degli altri europeisti ‘ante-marcia’ che quando sentono dire [l'europa così com'è non ci piace] evocano tutti i cavalieri dell’Apocalisse ‘fascista’, dal populismo al qualunquismo, dal gretto provincialismo ai rigurgiti di sciovinismo. A riconferma che non solo il ‘patriottismo’ ma anche il suo contrario può diventare the last refuge of a scoundrel.

Dino Cofrancesco

Da Io secondo me (2)

mente malSanaa

E te pareva che mancasse l'ennesimo scarto di fabbrica: sgozzallah, come la madre amorevole degli imbecilli, produce in serie pezzi intercambiabili e buoni per ogni macellazione del suo premiato mattatoio; certi personaggi te li trovi raccolti assieme, per sostanza e contenuto: cambia solo il colore della sacca della raccolta differenziata, ma sempre immondizia ci trovi, in quel budello, che di uomo si fregia immeritato titolo. Questa volta si va a rovistare nella carcassa putrida di El Ketawi Dafani, padre di Sanaa; ieri era Mohammed Saleem, il "padrone" di Hina ma, visto uno visti tutti, gli adoratori del nuovo dio sgozzallah. Spesso di derivazione intellettuale bovara o pecoreccia, questi personaggi hanno una paura boia delle donne: coscienti della propria nullità e incapacità a gestire un mondo che, correndo, se li è lasciati alle spalle, non accettano la naturale selezione, che all'estinzione destina appunto i capi inutili, e sono a motivare il proprio attaccamento all'esistenza nell'affrancamento in una dottrina che ne legittima superiorità e conseguente diritto di supremazia; le donne, in tante culture e nello scorrere dei tempi, sono state scippate di un diritto paritario, ma i più hanno superato lo scoglio e, non per nulla hanno fatto ammenda, ed oggi chiamano la propria compagna con un tenero appellativo: l'altra metà del cielo. Ancora tante scorie galleggiano in superficie, intossicando il tessuto sociale, ma sono alla berlina, indicati al pubblico disprezzo, sempre più destinati a diventare come l'acqua della lavatrice, quando se ne esce dallo scarico con lo sporco. E la legge prevede e provvede alla livella; e le donne, sempre più, sono a risalire la china che per tanto le ha viste sul fondo. Non abbiamo la perfezione, ancora: ma la perfettibilità è sempre al lavoro. Gli sgozzallah invece, no: il suo campione col pisello, già dall'avere quel batacchio tra le gambe si sente diritto di menarlo come un bastone; pure il più scemo tra gli scemi pretende primeggiare, solo perché fa la pipì con la cannuccia! Fosse solo il sistema idraulico, a farci migliori, allora il dio sgozzallah, che cazzo ha fatto esemplari senza la prolunga: che dio dei miei stivali è, se c'ha fatto la ciambella con il buco e s'è poi accorto che avrebbe preferito il cono gelato? Da un deficiente simile, è ovvio che i suoi lombi erano destinati a riempire i villaggi, di scemi. Come Mohammed Saleem. Come El Ketawi Dafani. Questi Bingo-bongo arrivano dalla tribù a noi, e vorrebbero continuare a fare in casa d'altri i padroni, come abituati nella propria; ci disprezzano, per nostri usi e costumi, ci sopportano, meditano vendette e punizioni, e il prossimo loro ha sembianze da pecora, che obbedisce e si scanna alla bisogna; e attendono, pazientemente, subdolamente, incarniti come un'unghia, ma pronti a formare branco e cacciare, appena se ne presenta l'occasione. Sono quelli che sciamano, occupano e bloccano marciapiedi e strade, perché devono pregare, e lo devono fare proprio tra i coglioni nostri; oppure, composta la mandria, mostrano maschia virilità, occupando piazze dove, l'odiato che li ospita ha cattedrali che si affacciano, a dimostrazione del proprio, di religione e credo. Importa una mazza: quando cambierà il vento, sapranno bene cosa farci; intanto fanno le prove, saggiano l'avversario, ne tastano il ventre, per capire quanto è molle e, quando la massa burrosa lo permette, affondano i colpi. Beninteso: sto sempre parlando dei figli di sgozzallah, che sono quelli a cui dobbiamo spuntare le unghie e limare i denti. Cervelli grippati dalla sabbia del deserto, scuciono la gola senza esitazione alle proprie figlie; - «Lo meritano; non seguono i precetti di dio, frequentano gli infedeli, gli impuri: scimmie, cani e porci!» No, stronzi: sono l'esempio di una crescita, evoluzione ed integrazione che ogni dio, che sia veramente "Padre" e non "padrone", vorrebbe dai propri figli: altrimenti, sarebbe solo un deuccio da quattro soldi, creato ad immagine e somiglianza di esseri primitivi e involuti, alla Mohammed Saleem o El Ketawi Dafani. "Amore" è parola che non conoscono, non comprendono, a saper coniugare solo «Il padrone sono me!» Sanaa come Hina, e quante le hanno precedute e seguiranno, sono la speranza, il futuro, soffocate in culla dalla bestiale ignoranza, figlia di madre sempre incinta e degli sgozzallah. I Mohammed Saleem e gli El Ketawi Dafani non sono buoni neppure per fare il pastone ai maiali. Tanto più quando escono dai confini della tribù dei Binngo-bongo. El Ketawi Dafani: una mente malata, putrida... malSanaa.

Da Io secondo me

Santanchè subito

Reagiscono a soli due stimoli, del tipo acceso-spento, on-off, bianco-nero, 0-1; Sono arrivati con la valigia di cartone, chiusa con lo spago, ma al posto di pane e caciocavallo c'hanno tirato fuori il sacro libercolo, che li rassicura di quanto sono bravi e belli, le istruzioni per l'uso del filo - non interdentale, ma della lama - quattro regolette, elementari quanto loro, da seguire ed imporre "Urbi et orbi", alla città e al mondo, al rimanente di quelli che sono infedeli, cani, scimmie e porci. Arrivano da noi - nel Nuovo Mondo - e cominciano la distribuzione di specchietti e collanine, l'unica illuminazione che credono noi si capisca; Con i fogli del regolamento di condominio che gli abbiamo dato c'hanno fatto strati di morbidezza, da portare nel gabinetto di guerra. Ci hanno restituito il loro, la sharia, il giornalino della parrocchia di provenienza, che vuole riscrivere tutto, partendo addirittura dalla storia del mondo, che la vogliono riveduta e corretta, secondo nuovo editore e edizione. Sono brutali, volgari, irrispettosi, altezzosi, "sboroni", come dicono a Bologna, ovvero, gradassi, portatori di bullismo da branco.Prendiamo l'esempio del burqa, il velo integrale: da noi è sgradito e sgradevole, assolutamente estraneo alle abitudini di casa, prigione mobile, ergastolo ambulante, umiliazione unilaterale; insomma: 'na chiavica! Da noi non ci deve stare, fa schifo, sa di tribù bingo-bongo. In un mare di vigliacca indifferenza e passiva rassegnazione, c'è chi non si piega alla vaselina e reagisce. Daniela Santanchè, donna e sommamente attenta ai diritti delle stesse, aveva indetto, a Milano, una manifestazione per la libertà delle donne musulmane e contro il burqa, davanti a quel teatro Ciak, all'interno dell'ex Fabbrica del Vapore dove, a fine '800, si costruivano materiali per le ferrovie, oggi centro culturale e spazio per mostre. Zotici quanto sono, i più scalmanati "taleban-barbudos" hanno pensato che, alle loro femmine, ci volevano togliere il velo per lasciarle senza buccia, nude come mamma le ha fatte, tant'è che uno, infiammato come uno zolfanello passato sul ruvido, sincopato che pareva un pomodoro maturo, urlava a... squarciagola: - «Non toccate le nostre donne!» E che, se gli si toglie anche questo segno di dominanza e prepotente potere, dietro di loro il nulla: con la testa alle stelle, si trovano nelle stalle, ad essere il culo, negli opposti valori della crescita dell'Homo Sapiens Sapiens.Per trovare dei maestri dell'imballo come loro, si deve andare lontano nel tempo; almeno al tempo dei Faraoni, quando si confezionavano le mummie, avvolgendole nell'equivalente del burqa: ma almeno, gli insaccati, erano già morti, belle che stecchiti. Qui no: con il lavoro si portano avanti, che ancora la poveretta respira. Gli imbalsamatori moderni sono gli squinternati di Binallah, la "barbamuffa" sul formaggio andato a male, l'acido del latte rancido, fiaccato dal troppo tempo all'aperto, opprimenti e soffocanti, come la forfora sul capello o il cuscino sulla faccia. "E qui comando io e questa e casa mia, ogni dì voglio sapere, ogni dì voglio sapere; e qui comando io e questa è casa mia, ogni dì voglio sapere chi viene e chi va", così faceva un vecchio ritornello, ma se è vero che comandano, non sono a casa loro, cazzo! Il rapporto che quei burini hanno con le donne è come quello del "ragno-beduino" con la mosca: una volta prigioniera, la paralizza con il veleno e poi l'avvolge in un bel bozzolo, avviluppante e "burqoso"; sospesa in quel limbo di vita-non-vita, la poveretta attende rassegnata la fine dei giorni, invecchiando in quel coma vigile, a meno che sia consumata prima, secondo i capricci del ragno. Sono esseri bipedi, all'aspetto somiglianti all'uomo ma, oltre la cotica, c'è il budello con la merenda genetica che un taccagno destino c'ha consegnato, che se guardi meglio ci trovi la crosta con scaglie e squame, callosità formate in quattordici secoli di retromarcia evolutiva. Alla Santanchè non c'hanno risposto con il muscolo grigio-gelatinoso, ma con il bilanciere tra le gambe: spintoni, insulti, minacce, e un bel pugno al torace, prima che la polizia bloccasse la mandriallah, impedendo sicuramente tentativi di linciaggio. Questo in casa nostra, ad invocare rispetto per l'uso delle nostre cose e case, terra, storia e radici, per nostrane e indigene leggi e abitanti; senza contare considerazione per la "sensibilità", elargita magra a noi e abbondante per gli altri. Se io vado a casa loro devo mettere la tovaglia in testa a mia moglie, e qui mancherà poco debba fare lo stesso, visto che ci sono state scemette nostre che hanno protestato perché non si vuole il burqini, il tendone da bagno da far indossare, in piscina o in spiaggia, alle donne di proprietà dei talebani importati. E via il Presepe; e via il Crocefisso; e silenzio alle campane; e a metter in croce le rane e preservativi in testa alla Madonna; attenti a dileggiare il Papa ma prudenti, a non far eguale per il maometto; e a sopportare occupazioni di sprezzanti bovi, che occupano piazze e strade, offrendo fondello e terga in dispetto al nostro sacro, minaccia... velata e possente prova muscolare, a farci prevedere quali sconquassi ci sarebbero qualora decidessero di far sul serio, se non abbassiamo coda e cresta. L'Istituto culturale islamico di viale Jenner ha denunciato Daniela Santanchè per "turbativa di funzione religiosa autorizzata". L'azione legale è stata firmata dal direttore del centro, Abdel Shaari, che l'aveva definita "fascista", arrivando alla sparata finale: - «Non rappresenta nessuno, con me ci sono un milione di musulmani.» E già, li ha liofilizzati e ridotti ad un dado: se li ributta in acqua ritornano a gonfiarsi in volume, come le sue balle! Ma il verminaio-Jenner è famoso per l'allevamento di lombrichi. A far da contrappasso alla schiumarola, ecco la Casa della cultura islamica di Via Padova, un centro moderato che da molti anni opera con iniziative sociali e interreligiose, di cui leggo:- «Siamo contro ogni violenza», ha detto Mohammed Danova, della direzione della moschea «noi non c'eravamo [...] l'onorevole Santanchè manifestava contro la segregazione delle donne e contro il burqa. Su questo siamo d'accordo e dunque ha la nostra solidarietà [...] poteva venire da noi e può farlo: sarà l'occasione per rimediare a quest'incidente con un dialogo più costruttivo.» Vediamo di tener separato il grano dal loglio. dall'erbe spinose e dalla tenace gramigna. Dalle donne di sinistra, silenzio di tomba, ma la talebanizzazione somiglia troppo alla dottrina dei loro nonni e padri politico-ideologici: loro sono asessuate e il burqa l'hanno indossato per un secolo, con le fette di salame sugli occhi, sacrificando ogni femminilità per una rivoluzione, poi abortita nel ventre dell'utopia, fumo d'oppio e cimitero di popoli. Santanchè - santa - subito! E al resto di simili bipedi, mi metto la camicia... Brunetta e gli urlo:- «Annate a morì ammazzati!»

Sharia

«Vogliono giudici islamici in Italia» di Enza Cusmai

Giudici islamici per omicidi commessi da islamici. In Italia. È questa la richiesta provocatoria di una donna italiana, convertita all’Islam, lanciata durante Domenica 5, il programma-contenitore della domenica pomeriggio su Canale 5, dove Claudio Brachino ospitava Daniela Santanchè e Souad Sbai, deputato del Pdl da sempre in prima linea per rivendicare i diritti delle donne islamiche.
Onorevole Sbai, cosa è successo in trasmissione? «Sono sdegnata. Questa signora italiana convertita da anni all’Islam si è presentata in tv con il velo, copertissima e applauditissima dalle colleghe che ha portata con sé in studio. Si parlava dei terribili fatti di sangue legati all’intolleranza religiosa e lei ha dichiarato con freddezza che servirebbe una corte islamica per tutti i reati che coinvolgono l’Islam».
In Italia? «Esattamente. A pari di quello che succede in Inghilterra dove le ragazze fino alla terza generazione si trovano a essere giudicare da giudici islamici».
Come sono le sentenze? «Permissive e maschiliste. La donna vale la metà. Quando ci sono maltrattamenti e violenze, i giudici chiamano il marito e gli consigliano solo di fare più attenzione. È una cosa aberrante. Anche nell’eredità la donna ha diritto a un quarto dei beni».
Lei è sorpresa per la richiesta di un tribunale speciale? «No, sono molto preoccupata. Questi estremisti piano piano avanzano con le loro richieste e li invitiamo pure nelle trasmissioni. Quella donna ha fatto una precisa proposta con una freddezza e lucidità inquietante. Lo ha fatto apposta. Oggi è toccato a lei, domani lo farà qualcun altro. Diventerà un’abitudine e a molti sembrerà normale istituire corti islamiche anche in Italia».
Ma non pensa che siano solo delle provocazioni? «No, sono degli esaltati che pensano di avere terreno fertile attorno. Ma devono vergognarsi. Non hanno capito niente dell’Islam. Non ci servono convertiti che ci vengano a insegnare la cultura arabo-islamica e come dobbiamo vestirci. Quella donna e tanti come lei sono caduti nella rete delle sette e possono rimanerci dentro a vita».
Avverte un radicamento delle posizioni estremiste islamiche qui da noi? «Otto italiani ogni giorno diventano musulmani, si convertono soprattutto all’islam radicale, dove ci sono imam che fanno il lavaggio del cervello ai nuovi arrivati. Le donne che sposano i marocchini diventano degli zerbini, non riescono a pensare, si vestono come nel medioevo. Anche gli uomini italiani che sposano donne arabe finiscono per diventare degli estremisti».
In Italia chi gli dà spazio? «Li asseconda la solita sinistra buonista. Povera Italia. Noi, in buona fede, parliamo di regolarizzazione, di cittadinanza, e questi vogliono creare delle corti che invece tolgono la libertà della persona. Vanno avanti con le loro richieste mentre noi arretriamo: non abbiamo neppure ottenuto l’abolizione del foulard che vediamo indossare persino alle bambine arabe».
A che punto è la proposta di abolizione del burqa? «Sarà discussa questa settimana in commissione Affari costituzionali. Spero si eliminato perché rappresenta l'annullamento della persona».
Cosa si può fare per evitare che certe proposte estremiste trovino spazio? «Io proporrò un disegno di legge in cui venga sancito che una corte islamica in Italia non sarà mai costituita. Non sia mai che qualcuno venga convinto da questi personaggi a mettere in cantiere una cosa così aberrante!».
Ma le corti islamiche valgono anche per gli omicidi? «Certo. E quella donna ha detto in modo freddo che gli islamici devono essere giudicati da altri islamici. Questi esaltati avanzano. E diventeranno un problema per la società italiana».
Uno scenario inquietante. «Molti di questi signori che farneticano anche in tv vengono cacciati dal loro paese di origine perché sono filo estremisti e alcuni filoterroristi. Arrivano in Italia e sono accolti a braccia aperte. Qualche amministrazione locale gli offre perfino dei soldi in nome della solidarietà e delle banche li sovvenzionano. Come mai? Da dove arrivano certe ingenti somme di denaro? Io invito qualcuno a indagare su certe situazioni».

domenica 27 settembre 2009

Islam parigino o parigi islamica?

Parigi apre le porte al senso di colpa di Maurizio Stefanini

Tutti cittadini! Gheddafi ha appena detto che i Paesi ex-colonialisti dovrebbero prendere esempio dall’Italia e indennizzare in qualche modo le ex-colonie, che Sarkozy ha subito dato fondo a tutti sensi di colpa occidentali manco ai tempi di Frantz Fanon e dei Dannati della Terra, offrendo come risarcimento il passaporto francese agli algerini nati prima del 1962: data in cui gli Accordi di Evian concessero l’indipendenza a quello che all’epoca era territorio metropolitano francese. Per lo meno, così ha scritto il quotidiano algerino el-Khabar, citando fonti diplomatiche.
Stando a queste indiscrezioni, infatti, il presidente francese starebbe solo aspettando di sondare un po’ di esponenti dell’élite algerina, per capire come la legge potrebbe essere accolta. Già negli anni ’90, del resto, un progetto analogo fu rinviato sine die quando si sparse la voce che l’ambasciata francese ad Algeri stava già raccogliendo i dossier dei potenziali aventi diritto e l’edificio fu praticamente preso d’assalto. La legge algerina del febbraio 2005 ha ammesso la doppia cittadinanza, ma una ventina di mesi dopo il presidente Abdel Aziz Bouteflika lanciò un durissimo attacco ai possessori di doppio passaporto. «Non sappiamo più riconoscere l’algerino dal non algerino».

Leggi oscillanti. Secondo il punto di vista anticolonialista, la conquista dell’Algeria fu iniziata nel 1830 per non restituire un prestito che il dey di Algeri aveva fatto alla Francia repubblicana nel 1794; secondo il punto di vista filo-colonialista, per porre fine alle incursioni dei pirati barbareschi. Raggiunta la “pacificazione” nel 1871, il successo militare fu compromesso dalla mancanza di un progetto politico chiaro che risulta proprio dal continuo oscillare delle leggi sulla cittadinanza. Nel 1865, ad esempio, con gesto da imperatore romano Napoleone III diede la cittadinanza francese a tutti i musulmani che lo richiedessero. La Terza Repubblica tolse la possibilità, dando però nel 1870 la cittadinanza ai 37.000 ebrei. Nel 1887 il nuovo Codice dell’Indigenato distinse tra cittadini e sudditi: questi ultimi soggetti alla legge coranica invece che a quella civile. Nel 1889 la cittadinanza fu concessa agli stranieri residenti, in gran parte spagnoli o italiani, che erano di numero quasi pari ai francesi. Il Nobel per la Letteratura Albert Camus era nato, a esempio, da padre francese e madre spagnola, nella cittadina algerina che allora si chiamava Mondovi e ora ha il nome arabo di Dréan. Si trova a 25 chilometri da quell’altra città che, quando ai tempi dell’Impero Romano ci nacque Sant’Agostino, si chiamava Ippona; quando poi ci nacque da padre maltese e madre siciliana l’attrice Edvige Fenech, aveva il nome di Bône, Bona in italiano; e adesso è invece Annaba.

Gli accordi di Evian. Accanto a indigeni, europei e ebrei c’erano poi gli Évolué, musulmani che avevano ottenuto la cittadinanza col rinunciare solennemente alla sharia: tra 1865 e 1930, non più di 3.600. Nel 1940 il regime di Vichy toglie la cittadinanza agli ebrei. Nel 1946 la legge Lamine Guèye la dà a tutti i sudditi dell’impero coloniale. Infine nel 1947 l’Algeria diventa territorio metropolitano. Per questo gli algerini residenti in Francia dopo il 1962 poterono mantenere la cittadinanza francese, che fu offerta anche agli harki: i 180.000 algerini che durante la guerra d’indipendenza avevano combattuto per Parigi. Gli accordi di Evian, però, stabilirono che chi restava in Algeria doveva scegliere tra una delle due cittadinanze, e se fosse restato con quella francese sarebbe stato considerato residente straniero. A ciò si aggiunse lo slogan gridato dalle folle islamiche a cristiani e ebrei («La valigia o la bara!»), per cui i non islamici emigrarono in blocco: 900.000 persone, tra cui 130.000 ebrei.

Fuori dal programma

Il coordinatore del Pdl: "I figli degli stranieri hanno diritto ad essere italiani". Ma è polemica con Granata: "La sua iniziativa è una fuga in avanti". Immigrati, La Russa media con Fini. Calderoli: "Attentato alla democrazia". Durissima presa di posizione del ministro leghista sul tema della cittadinanza. E anche Rotondi esclude qualsiasi ipotesi: "Non è nel programma di governo"

MILANO
- Dopo Tremonti, tocca a La Russa. Se ieri il ministro dell'Economia non aveva chiuso la porta alle aperture di Fini sulla cittadinanza per gli immigrati, oggi il coordinatore nazionale del Pdl, si dice d'accordo con Fini "circa la necessità di una riforma della legge sulla cittadinanza". A partire da un percorso accelerato - come auspica Fini - per i giovani figli di stranieri che sono nati in Italia. Ma poi ci pensa il ministro leghista a spazzare via ogni dibattito sul tema: la proposta del presidente della Camera: "Dare il voto agli immigrati è un attentato alla democrazia".

Le parole di La Russa. Il ministro è in controtendenza, rispetto alla quasi totalità dei vertici del Pdl, da Cicchitto a Gasparri: "Penso alla 'generazione Balotelli' - dice La Russa - ai ragazzi e ai bambini che hanno già fatto un ciclo scolastico in Italia e che hanno diritto, se amano il nostro paese, ad essere italiani". No al percorso "agevolato", invece, per gli adulti: "Mi basterebbe che dopo i 10 anni uno divenisse italiano se lo merita e se ha superato la prova di italiano e di amore per la nostra storia". Ma se i toni con Fini sono concilianti, arrivano invece le bacchettate alla proposta di legge del finiano Granata sottoscritta da 50 parlamentari di tutti i gruppi (tranne la Lega): "Fughe in avanti".

La replica di Granata. Il parlamentare vicinissimo al presidente della Camera non ci sta e replica per le rime: "Le battute da caserma nel dibattito politico sul diritto di cittadinanza agli immigrati copre l'assenza di dibattito interno al Pdl sulle scelte parlamentari e sulla priorità da dare ai disegni di legge. Si abbia il coraggio di andare in aula al più presto per votare il ddl sulla cittadinanza".

La Lega non molla. Nessun cedimento alla linea dura sull'immigrazione. "Portare avanti il modello di cittadinanza facile è sbagliato perchè vorrebbe dire attirare sul nostro territorio milioni di immigrati che noi non possiamo accogliere" dice il capogruppo Cota. Ancora più duro Calderoli: "Dare il voto agli immigrati è un attentato alla democrazia, e un esproprio della volontà popolare. L'ultima emergenza che vedo in questo momento è quella di discutere in tema di cittadinanza e di conseguente diritto al voto per gli ultimi arrivati".

Anche Rotondi non ci sta. Il ministro dell'Attuazione del programma taglia corto: "Il tema della cittadinanza è estraneo al programma del nostro governo e, dunque, non può che imporsi per via parlamentare".

Prossimi cittadini italiani

Ieri il religioso è stato colpito con una bottigliata e picchiato, dopo essersi fatto il segno della croce al suo passaggio. Il giovane fermato è clandestino. Frate aggredito al grido di "Allah è grande". La polizia arresta un ventenne tunisino

SANREMO
- Un frate cappuccino di 76 anni, padre Riccardo, è stato aggredito ieri mattina a Genova da un extracomunitario che lo ha colpito a colpi di bottiglia, calci e pugni urlando "Allah è grande". Ora il frate rischia di perdere un occhio. E oggi la polizia ha arrestato un tunisino di 20 anni, sospettato di essere l'autore del gesto violento. Il ragazzo è un clandestino, già espulso dal territorio nazionale e arrestato e scarcerato per possesso di droga. Il fatto è avvenuto intorno alle 7 in vicolo dei Cappuccini, nei pressi della chiesa di padre Riccardo. Il religioso, trovandosi davanti il giovane, si è fatto il segno della croce; ma l'altro, dopo avere risposto con la frase "Allah è grande", gli ha dato una bottigliata in testa. Poi ha infierito con calci e pugni e se ne è andato. Il frate è stato soccorso da gente richiamata dalle sue grida d'aiuto ed è riuscito a dire solo che l'aggressore era un musulmano. Ora è ricoverato all'ospedale di Sanremo.

Arrestato l'aggressore: e' un clandestino 20enne con precedenti penali. Sanremo: tunisino aggredisce per strada un frate al grido di «Allah è grande». Padre Riccardo, 76 anni, rischia di perdere l'uso di un occhio. Ma l'attacco non avrebbe movente religioso

SANREMO
- Al grido di «Allah è grande», un extracomunitario nordafricano, ha massacrato un frate cappuccino a colpi di bottiglia, infierendo sull'uomo con calci e pugni anche quando era ormai a terra. Ora il frate di Sanremo, padre Riccardo, 76 anni, rischia di perdere l'uso di un occhio.

ARRESTO - Per l'aggressione gli uomini della questura di Imperia e del Commissariato di Sanremo hanno arrestato un tunisino di 20 anni, clandestino. Il ragazzo, che è clandestino già espulso dal territorio nazionale e poi arrestato e scarcerato per possesso di droga, avrebbe avuto col frate una discussione su alcuni simboli religiosi prima dell'aggressione. Ma la polizia, che ha rintracciato il tunisino grazie alle immagini delle telecamere di sorveglianza collocate nella zona, nega che l'aggressione possa aver movente religioso. Starebbe, invece, nella negazione dell'elemosina la causa della violenza perpetrata sul frate. Il tunisino, che adesso si trova in stato di arresto nella cella di sicurezza del commissariato per il reato di immigrazione clandestina, si è rifiutato di rispondere alle domande. La polizia sta aspettando che l'ospedale di Sanremo fornisca notizie sullo stato di salute del frate. Non è escluso che nelle prossime ore possa scattare una denuncia a carico del tunisino per lesioni gravissime. Secondo quanto appreso, la polizia ha accertato che già in passato un altro padre cappuccino era rimasto vittima di analogo episodio che non è mai stato denunciato alle forze di polizia.

Opposizione?

Overdose immunizzante: l'errore dell'Opposizione di Gianni Pardo

Gli intellettuali e i giornalisti di sinistra non si capacitano che gli italiani continuino a sostenere Berlusconi. Li capiscono così poco che alla fine non sanno che ricoprirli d’insulti. Sono ignoranti. Sono rimbecilliti dalla televisione. Bevono come idioti le balle che gli propina la destra. Non hanno nessuna sensibilità morale. Non hanno buon gusto. Non hanno intelligenza. Non hanno dignità. Ma gli insulti, come si usa dire, sono gli argomenti di chi non ha argomenti. E per questo può forse essere utile che sul mistero cerchi di illuminarli uno di questi ignoranti, immorali, cretini ecc. La rivelazione – forse sconvolgente – è che parecchi sostenitori del Pdl non votano tanto per Berlusconi quanto contro i suoi oppositori. Non si tratta dunque – come ripetono tanti giornali come Repubblica o l’Unità – di uno sviscerato e cieco amore per il Cavaliere ma di un risentimento e di un disprezzo profondi per la parte che lo avversa: un’opposizione priva di idee che ha scelto come politica l’attacco all’uomo di Arcore e l’ha condotto con forsennata acrimonia, per mesi e per anni, non arretrando dinanzi a nulla, nemmeno le calunnie. I risultati non sono stati quelli sperati e, invece di capire di avere imboccato un vicolo cieco, l’opposizione parlamentare e quella cartacea hanno creduto che l’errore fosse dovuto – nientemeno – alla loro mitezza: e per questo hanno rincarato la dose. Il disastroso effetto finale è sotto gli occhi di tutti. E ancora una volta non perché si siano offesi i sentimenti d’amore per il Cavaliere, ma perché la campagna è stata controproducente. Una sinistra urlante e schiumante di rabbia, che vomita accuse e contumelie, non ha stile, non suscita consensi e perde credibilità. Siamo al punto che tutti i conflitti d’interesse, tutti gli annunci di gravissimi reati e tutto il gossip pruriginoso lasciano gli italiani di ghiaccio. L’overdose, invece di uccidere, ha provocato l’immunizzazione. Quella sinistra che depreca il “lodo Alfano” non comprende di avere creato uno scudo più efficace di quello votato in Parlamento. La gente è convinta che Berlusconi sia oggetto di un odio forsennato e ne deduce che tutte le accuse, perfino quelle eventualmente fondate, sono calunnie. Oggi potrebbe mettersi a fare rapine a volto scoperto dinanzi alle telecamere e gli italiani lo assolverebbero. “È un fotomontaggio”. “È un sosia”. “È un’invenzione di Repubblica”. La sinistra è talmente lontana dal rendersi conto di tutto questo, che non comprende più il fenomeno da essa stessa creato. Insulta Berlusconi dalla mattina alla sera e il suo consenso non cala. L’Italia sprofonda nella recessione e il suo consenso non cala. Annozero spara per ore a palle incatenate contro di lui, e il suo consenso non cala. Lo stesso Silvio si presenta da Vespa e l’audience non è brillante, ma il suo consenso non cala. C’è di che sbattere la testa contro il muro.La spiegazione è che molti elettori non hanno più bisogno di ascoltare l’interessato. Ascoltano, se pure distrattamente, lo strepito della sinistra e usano un meccanismo mentale semplicissimo: se lo dice Repubblica è falso. Se lo afferma Di Pietro è demenziale. Se lo grida Santoro è una calunnia. A questo punto, perché ascoltare Berlusconi? Per sostenere lui basta guardare chi sono i suoi nemici: questa opposizione è fanatica, scorretta e indecente. Con le sue strida incanterà quel venti per cento che ha da tempo adottato l’antiberlusconismo viscerale, ma il fiele di Franceschini, le sparate apocalittiche e sgrammaticate di Di Pietro, le accuse di Repubblica lasciano indifferente il popolo italiano. Se il pubblico televisivo trascura Berlusconi quando appare nel programma di Vespa, e gli preferisce un insulso programma d’evasione, è perché ha già emesso il verdetto finale. Quello che non ammette gravami. Gli oppositori possono sintonizzarsi a milioni su Annozero per assistere alla settimanale messa cantata della loro religione, e rimarranno una setta, senza nessuna speranza di divenire maggioranza ed impedendo anzi al Pd di conquistarla.L’attuale sinistra è la massima nemica della sinistra. Con i suoi eccessi ha reso roccioso l’odio di un italiano su tre per Berlusconi ma placidamente stabile il sostegno degli altri due. Il leader del Pdl si limita a intascare i benefici di un’opposizione tanto violenta e vociante quanto inefficace.Questa politica può essere utile a Di Pietro, può creare audience per Santoro, può aiutare qualche giornale a riconquistare lettori, ma condanna quella che fu un’orgogliosa sinistra a un futuro plumbeo e senza speranza.

Ancora sulla cittadinanza

Apre anche franceschini: rispetto le sue posizioni. La Russa: «Cittadinanza, ha ragione Fini». Dopo la proposta del presidente della Camera di ridurre i tempi a 5 anni. Cota (Lega): la gente non vuole questo

ROMA
- Via libera da La Russa a Fini che, dal palco della festa del Pdl, ha proposto la riforma della legge sulla cittadinanza. «Sono assolutamente d'accordo sul fatto che il tema debba essere affrontato nelle sedi di partito - ha detto il ministro della Difesa a margine della manifestazione del Pdl a Milano -. Sono in più assolutamente d'accordo sulla necessità di riformare la legge sulla cittadinanza. Penso alla "generazione Balotelli", ai ragazzi e ai bambini che hanno già compiuto un ciclo scolastico, e che hanno diritto, se amano l'Italia di essere italiani». Fini ha espresso l'auspicio che si potesse acquisire la cittadinanza italiana non solo in base alla burocrazia, ma anche considerando l'amore per il nostro Paese e dimostrando, fra l'altro, di conoscere la lingua e la storia italiana.

SEDI GIUSTE - Ma La Russa mette anche dei paletti: «I contenuti vanno discussi nelle sedi giuste - puntualizza -. Chi è nato qui e ha compiuto già un ciclo di studi ha diritto di diventare italiano. Per gli adulti, è giusto concedere la cittadinanza a chi vive in Italia da almeno dieci anni e sia in grado di dimostrare di conoscere la nostra lingua». Il ministro ha ribadito che la politica sull'immigrazione ha bisogno di «grande severità con gli irregolari», ma anche di una «vera integrazione» con gli immigrati che vivono e lavorano in Italia.

NO DELLA LEGA - Secca la replica della Lega alla proposta di Fini. «Portare avanti il modello di cittadinanza facile è sbagliato perché vorrebbe dire attirare sul nostro territorio milioni di immigrati che noi non possiamo accogliere. La Lega sente il dovere di rispettare gli impegni presi con la gente che non vuole questo risultato» dichiara in una nota il presidente dei deputati Roberto Cota.

FRANCESCHINI - Si dice invece vicino a Fini il segretario del Pd Dario Franceschini, che rispetta le posizioni del presidente della Camera sui temi della cittadinanza e dell'immigrazione e boccia l'idea di classi scolastiche divise per nazionalità. Quindi, conferma il parere favorevole alla concessione della cittadinanza in 5 anni. «Ci deve essere rispetto per le diversità e le differenze etniche, senza dimenticare di garantire con fermezza la sicurezza dei cittadini» prosegue, definendo inaccettabile l'abbandono degli extracomunitari in mare.

Saviano, se stesso e repubblica

Saviano smentisce "Repubblica" (e anche se stesso) di Massimo De Manzoni

Come volevasi dimostrare: sotto le firme, niente. Repubblica aveva già vacillato dopo la brutta botta infertagli da Daniel Cohn Bendit, uno dei prestigiosi sottoscrittori dello straziante appello per la difesa della libertà di stampa il quale, intervistato dall’Unità, aveva candidamente ammesso di non vedere le avvisaglie di un regime in Italia. Ora è arrivato il colpo del ko. Saviano, proprio Roberto Saviano, lo scrittore mito dei republicones, un loro editorialista la cui firma compare in caratteri fiammeggianti sotto il manifesto a tutela dell’informazione, dichiara: «Qui da noi la libertà di stampa c’è». Così, papale papale. Senza preparazione, senza una telefonata di avvertimento non dico al fondatore Eugenio Scalfari, ma nemmeno al povero Ezio Mauro, che da mesi si sbatte in tutti i modi per dimostrare che stiamo vivendo sotto il giogo di un intemperante dittatore. E la tremenda sentenza viene raccolta da Daria Bignardi, un’altra iconcina della nostra sinistra. Quindi non si può neppure gridare all’agguato, sperare in un travisamento delle parole del Vate da parte di qualche becero giornalista di destra. Pensate. Tutta questa fatica per collezionare migliaia di firme, da Topo Gigio ad Arsenio Lupin, da Pinco Pallo a Cazzone di Turno. Tutta questa mobilitazione di organizzazioni fiancheggiatrici, Arci in testa, per gonfiare il numero delle adesioni alla Grande Manifestazione per la Libertà. Tutte quelle pagine con quei bei titoloni: «Ha firmato anche Martin Amis», «E Alexandra Foderl-Smid», «E Philippe Thureau Dangin», «No, no, aspettate: c’è anche Werner De Schepper», «Udite, udite: firma pure Gianni Minà». Vagonate di sottoscrizioni che grandinano da tutte le parti, dall’Australia al Mato Grosso dove, com’è noto, la nostra condizione di semischiavitù è oggetto di quotidiani dibattiti in tv e nelle università. Poi qualcuno si prende la briga di fare una domandina semplice semplice a uno di questi signori e voilà, casca il palco: niente dittatura, nessun attentato alla stampa. Persino Ezio Mauro, l’uomo che ha messo in moto questo ambaradan per ripicca contro Berlusconi, reo di aver querelato Repubblica dopo mesi di graticola porno-mediatica, intervistato da Radio France ha finito per ammettere: «No, il mio giornale non è minacciato». Ma allora di che cosa stiamo parlando da settimane? Se la libertà di stampa in Italia non è in pericolo, com’è lampante a chiunque abbia un briciolo di buonafede, perché sabato prossimo le truppe cammellate scenderanno in piazza? In difesa di quale irrinunciabile diritto? «Per la libertà di poter lavorare serenamente», prova a rimediare Saviano, forse consapevole di aver inavvertitamente giocato un brutto tiro al giornale di riferimento suo e della sinistra tutta. Fantastico, splendida idea: come mai non ci abbiamo pensato prima? Allora sabato tutti in marcia per la «serenità di stampa». E perché no per la «santità di stampa»? Personalmente vedrei bene anche un oceanico corteo per la «comodità di stampa». Se ne può discutere. Mentre vedrete che nessuno proporrà una manifestazione per l’«umiltà di stampa». L’unica di cui si sentirebbe davvero il bisogno.

Cittadinanza

Cicchitto «Per la cittadinanza agli stranieri esami seri e dieci anni di permanenza» di Maurizio Gasparri

«Mi sembra che sia giusta la data di permanenza in Italia di 10 anni reali coniugata però con esami seri». Lo ha detto il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, parlando alla Festa del Pdl della cittadinanza per gli immigrati. «Il Pdl - ha aggiunto - deve discutere e poi decidere su questa questione. ricordo che in Inghilterra c’era gente con la cittadinanza che poi faceva il terrorismo e in Francia organizzava le rivolte nelle banlieue». E legato al tema della cittadinanza è anche quello del diritto di voto. «Sono contrario al voto alle amministrative per chi non è cittadino italiano. Penso che debbano votare i cittadini italiani e che 10 anni per avere la cittadinanza vadano bene». Lo ha detto il capogruppo al Senato del Pdl , anche lui intervenuto alla festa nazionale del Popolo della libertà.

Napoli

La Iervolino regala 400mila euro per pagare l’affitto ai clandestini di Carmine Spadafora

Napoli - Mentre mezza Europa cerca di mettere un freno all'invasione di clandestini, dalla Napoli assalita dalle mille emergenze, arriva la notizia che la disinvolta amministrazione comunale di centrosinistra, guidata da Rosa Russo Iervolino, ha deciso di stanziare la sommetta di 400 mila euro, per contribuire al pagamento dell'affitto della casa, non solo a rifugiati e richiedenti asilo ma, anche a stranieri irregolari. Uno schiaffo al governo, che proprio il 2 luglio scorso aveva approvato in via definitiva, la legge che introduceva il reato di immigrazione clandestina. Uno schiaffo anche alla stragrande maggioranza degli italiani, non solo di centrodestra ma anche di centrosinistra, che di invasioni di extracomunitari e dei privilegi a loro assegnati da diverse amministrazioni di sinistra, non ne vuole più sapere. La delibera che foraggia gli extracomunitari irregolari, c'è già, ed è di pochi giorni fa: è la numero 1502 ed è datata 14 settembre. A portarla in giunta è stato l'assessore vendoliano, Giulio Riccio, che ha deciso di stanziare altri 400mila euro per sostenere il trasporto e l'accompagnamento a scuola dei minori stranieri. L'adozione della delibera è stata annunciata trionfalmente dallo stesso Riccio, indagato nei mesi scorsi, nell'ambito di una inchiesta sugli abusi delle auto blu. Anzi, il vendoliano, provocando un conflitto tra istituzioni, ha motivato l'adozione della sua delibera pro irregolari, con l'esigenza di «contrastare gli effetti discriminatori, l'instabilità e l'incertezza derivanti dalla legislazione vigente in materia di diritti degli stranieri, una legge dai tratti razzisti e fortemente discriminatori». Esulta anche Rosetta Iervolino, nonostante la «sua» Napoli vada sempre più giù, e non solo per le voragini, che alle prime piogge si aprono in centro e in periferia. Quattro in pochi giorni, che stanno bloccando due quartieri, e privato della casa un centinaio di famiglie. Per questi nuclei, italiani, residenti, in regola con le tasse, nessun aiuto. «Per gli stranieri invece sì: case, sussidi, aiuti», dicono polemicamente in vico San Carlo alle Mortelle, quattro notti fa, scene di terrore, per l'apertura di tre enormi voragini. Ma, per Rosetta «è importante che si crei una conferenza di servizi perché siamo preoccupati della politica di repressione che si adotta». Il passaggio chiave della delibera 1502 è a pag. 8, dove si dice di «dare mandato ai servizi comunali competenti a predisporre avviso pubblico per la concessione dei contributi all'affitto attraverso fondo straordinario destinato a rifugiati, richiedenti asilo e stranieri irregolari, giusto decreto del 17 novembre 2008, a firma del prefetto di Napoli». Il consigliere comunale di Napoli del Pdl, Raffaele Ambrosino, ha scovato tra la montagna di carte comunali, la delibera 1502. «Napoli rischia di essere invasa dagli stranieri, grazie alle delibere ipertolleranti dell'assessore Riccio. Quanti immigrati con cattive intenzioni arriveranno in città dopo l'annuncio di questa delibera?». Ambrosino ha poi rivelato la contrarietà espressa da qualche dirigente comunale, riguardo alla delibera che prevede aiuti agli immigrati irregolari. «Noi vogliamo politiche a favore della integrazione ma non demagogia. Ho interpellato alcuni dirigenti e sono caduti dalle nuvole e sostenuto che la delibera di Riccio è da rivedere». Polemico con Riccio è anche il Sindacato inquilini Assocasa. «La decisione della Giunta Iervolino di garantire un affitto un contributo all'affitto per gli immigrati irregolari, non ci vede favorevoli, perché determina una vera e propria ingiustizia ai danni delle milizia di famiglie napoletane che pur avendone i requisiti non possono accedere ai contributi previsti dalla legge per la sempre maggiore esiguità dei fondi impegnati», sostiene Giovanni Galluccio di Assocasa. Curioso che nella delibera di Riccio, più volte venga citato il Presidente della Repubblica ma, per gli uomini e le donne del centrosinistra di Napoli, il capo dello Stato viene chiamato Napoletano e non Napolitano.

sabato 26 settembre 2009

Orrori Finiani

Enrico letta: «Iniziata lotta per successione a Berlusconi». Cittadinanza, scontro alla festa del Pdl. Fini insiste sulla riduzione a 5 anni. Stop di Cicchitto: «Dieci anni più esami seri». Tremonti: «È coraggioso»

MILANO
- Lo scontro si consuma a (poca) distanza, sugli spalti della festa del Pdl a Milano. Fini torna a parlare di immigrazione, in particolare di cittadinanza, insistendo sulla necessità di ridurre i tempi da 10 a 5 anni. Gli replica indirettamente Cicchitto: «Mi sembra che 10 anni sia la data giusta di permanenza in Italia, coniugata però con esami seri». Tremonti, che ha partecipato con Fini ed Enrico Letta a un dibattito sulla situazione economica, concede invece un tiepido elogio (ma con immediato invito alla prudenza) al presidente della Camera: «Le sue posizioni sono generose e coraggiose e ne dobbiamo discutere. Ma è decisivo il fattore tempo, la cosa giusta nel tempo sbagliato può diventare sbagliata».

CITTADINANZA - Sull'immigrazione l'ex leader di An è stato come sempre chiaro, sottolineando che discutere della cittadinanza «non ha mai fatto male a nessuno»: «Attendo di discuterne, non accento scomuniche preventive dagli organi di stampa e continuerò a porre la questione finché non mi si opporranno motivazioni valide». Il presidente della Camera insiste quindi sull'idea di ridurre i tempi per concedere la cittadinanza agli stranieri integrati dopo 5 anni e risponde indirettamente al presidente del Senato Schifani che ha sottolineato l'impossibilità di tale riforma: «Qualcuno non ha capito o finge di non capire. Non ho la presunzione di essere condiviso, ma non accetto di passare per eretico o che si dica di non poter discutere del tema in quanto non scritto nel programma elettorale o non si sa bene dove». «L'Italia è degli italiani - prosegue Fini - e se qualcuno pensa che io non lo creda è un problema suo. Ma è anche di tutti coloro che dimostrano di amarla. Ci sono 4 milioni di stranieri in Italia e non è un'eresia pensare di garantire loro la cittadinanza se dimostrano di parlare bene la nostra lingua, conoscere la nostra storia, sapere che Trieste e più a nord di Palermo, giurare fedeltà ai valori della Costituzione e servire la nostra patria con le armi».

LE REAZIONI - Sul tema della cittadinanza arrivano a Fini diverse precisazioni da esponenti del centrodestra. Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera, anche lui ospite della festa milanese: «Il Pdl deve discutere e poi decidere su questa questione. Ricordo che in Inghilterra c'era gente con la cittadinanza che poi faceva il terrorismo e in Francia organizzava le rivolte nelle banlieue». Il ministro della Difesa Ignazio La Russa: «Apprezzo la chiarezza con cui Fini ha affrontato la questione, non apprezzo invece alcune proposte estreme di deputati del Pdl che sono state fatte con esponenti del Pd senza nessun dibattito interno: queste sono proposte di deputati che una volta si definivano peones. Dobbiamo fare amare l'Italia a quella che io definisco la "generazione Balotelli". Il problema del tempo per la cittadinanza lo vedremo poi». Molto diretto il vice capogruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello: «Dopo cinque anni io la cittadinanza non gliela voglio dare».

RIFORME - Parlando della crisi Fini sottolinea la necessità di realizzare al più presto le riforme: «Attenzione a dire che il peggio è passato. Per intercettare la ripresa servono interventi di cui ha bisogno il sistema Italia - spiega -. Non ho perso la speranza di realizzare in questa legislatura le riforme urgenti, anche se siamo in ritardo. Il governo ha fatto tutto ciò che doveva? Non sta a me dirlo, ogni italiano giudicherà». L'auspicio del presidente della Camera è che ci sia la coscienza che «alcune grandi sfide vanno affrontate congiuntamente dal sistema Italia, quindi maggioranza, opposizione, sindacati e altri soggetti che hanno a cuore l'interesse nazionale». Tra le riforme necessarie indica quella del sistema istituzionale, quella del bicameralismo perfetto, «che rende le decisioni meno solerti», la necessità di investire sulle eccellenze nelle università e nei centri di ricerca e «la riduzione delle distanze tra aree ricche e aree povere del Paese che non può essere rinviata».

LAVORO - Fini ha infine proposto alcuni temi relativi alla crisi e al lavoro: «Lasciate che mi spogli per un attimo della veste di presidente della Camera. Quanta gioia per una parte politica sentire che non è la lotta di classe che determina la dialettica dell'economia ma la concordia tra capitale e lavoro. Quanti ricordi anche alle affermazioni di Tremonti che ha detto che bisogna prevedere forme affinché gli utili aziendali possano essere a beneficio dei lavoratori». Infine la questione degli stipendi: «Altro che gabbie salariali. Leghiamo i salari alla produttività, alla crescita complessiva dell’economia».

LETTA - Durante la tavola rotonda non è mancato un siparietto tra Enrico Letta e Fini. Interpellato sulle questioni della cittadinanza agli immigrati, Letta ha esordito: «È un tema che può danneggiare in modo irreparabile il presidente Fini. Siccome gli voglio bene, cercherò di camminare sulle uova». Il presidente della Camera ha replicato: «Non è la prima volta che mi dicono che sono diventato di sinistra. Forse è la sinistra che su certi temi si è avvicinata alla destra». Letta si è presentato con una battuta: «Tra un Fini e un Tremonti ci deve sempre essere un Letta di mezzo». Al termine del dibattito, il responsabile Welfare del Pd ha commentato: «Abbiamo avuto la plastica dimostrazione che la lotta per la successione a Berlusconi è ufficialmente iniziata». E non ha risparmiato a Fini una stoccata: «Questa settimana alla Camera dei deputati abbiamo lavorato solo otto ore, dalle 15 di martedì alle 12 di mercoledì. Chiedo al presidente una sessione speciale sul welfare che discuta in particolare dei temi dell'immigrazione, del tasso di natalità del nostro Paese e del lavoro delle donne».

Gli uomini non cambiano

Unione europea

Immigrazione, Maroni accusa l'Europa "Grande assente, ha agito poco e male"

Milano - "La Commissione europea ha agito poco e male". Non ha usato mezzi termini il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nel suo intervento alla seconda conferenza sull’immigrazione, dove "grande assente" seppur invitata è proprio l’istituzione di Bruxelles.

Le accuse a Bruxelles. Maroni ha attaccato la Commissione europea che, a suo avviso, "ha agito poco e male" nelle politiche sull’immigrazione. "La commissione non ha svolto un ruolo proattivo - ha detto il titolare del Viminale - né sul fronte del contrasto alla clandestinità né su quello dell’integrazione, né sui rifugiati richiedenti asilo o protezione internazionale". Questa istituzione, ha aggiunto, "ha sempre avuto una voce flebile e poco autorevole, lasciando agli Stati membri la gestione delle politiche sull’immigrazione". La conseguenza è stata che "gli Stati hanno dovuto fare politiche nazionali inefficaci, in ritardo, ma soprattutto in competizione tra loro. Nelle intercettazioni effettuate nell’ambito delle inchieste sul traffico di essere umani, è emerso che gli indagati decidono le rotte dei loro traffici sulla base degli emendamenti giuridici degli Stati, degli accordi bilaterali, dei regolamenti nazionali". Alla commissione Maroni riconosce un ruolo teorico "fondamentale, anche per contrastare i clandestini", ruolo che, tuttavia, non sarebbe stato correttamente esercitato. Durante il suo intervento, il ministro è stato contestato da sette donne, tra le quali il consigliere comunale del Prc, Patrizia Quartieri.

Delitto d'onore (islamico)

Immigrazione, torna il delitto d’onore di Massimo Picozzi

Roma - Samia è una giovane donna di 28 anni, e quella mattina ha fissato un appuntamento in uno studio legale nel centro di Lahore, in Pakistan. La sua non è stata una decisione facile, ma l’ennesimo litigio col marito, culminato nella solita, selvaggia aggressione, l’ha convinta a rompere gli indugi e chiedere il divorzio. Da pochi minuti sta seduta davanti all’avvocato Hina Jilani, quando la segretaria annuncia che in sala d’attesa è arrivata anche la madre di Samia, in compagnia di un uomo. Samia è contenta di avere la madre vicina, in un momento così difficile, e accenna ad alzarsi per andarle incontro. Ma per lei c’è solo il tempo di un sorriso, perché l’uomo che entra, Habib ur Rhemna, le punta la pistola alla testa e fa fuoco. Solo quando Habib e la madre di Samia se ne sono andati, l’avvocato trova il coraggio di lanciare l’allarme. Ma non si tratta di un semplice omicidio con le caratteristiche di una spietata esecuzione, il fatto è che nessuno dei politici pakistani ha condannato il fatto, anzi qualcuno è arrivato a chiedere una condanna per l’avvocato Hina Jilani, colpevole di essersi prestata a difendere gli interessi della vittima. Posizione questa, subito raccolta dai fondamentalisti islamici, per i quali l’unica pena possibile da infliggere all’avvocato Jilani era la morte. Quello di Samia è uno dei casi più noti di honour killing avvenuto nel Pakistan, a dir la verità uno dei pochi che abbia ottenuto una qual risonanza, a fronte di un numero incredibile di tragedie che ogni anno si consumano nel silenzio.Lo Human Right Watch, l’Osservatorio per i Diritti Umani, definisce i crimini per onore come atti di violenza, soprattutto omicidi, commessi da membri di una famiglia di sesso maschile contro i membri femminili, perché ritenuti responsabili d'avere portato «disonore» al gruppo. Vi sono molte ragioni per le quali una donna può diventare un bersaglio per i propri familiari: rifiutando ad esempio di accettare un matrimonio combinato, essendo vittima di uno stupro per il fatto d’essersi esposta al rischio di violenza, chiedendo il divorzio, o, naturalmente, commettendo adulterio. Ma talvolta basta la semplice impressione che la donna si sia comportata in modo «sconveniente» per innescare un’aggressione mortale.È evidente come la spiegazione di una tale barbarie stia tutta in una concezione primitiva della donna e dei rapporti tra mondo femminile e maschile. Prima di mutilare e uccidere, occorre che la vittima sia inquadrata a un rango inferiore, subordinata e accessoria alla figura dell’uomo. Se qualche ricercatore iscrive il «delitto d'onore» tra gli omicidi domestici, mentre altri li comprendono nella categoria degli hate crimes, i crimini dell’odio, tutti sono d’accordo sull’eccezionalità dei numeri: ogni anno almeno cinquemila donne vengono uccise perché hanno disonorato la propria famiglia! E la maggior parte di questi delitti non viene nemmeno riconosciuta, perché camuffata da incidente, oppure da suicidio.In Pakistan, dove la pratica dell’honour killing è più diffusa e soprannominata «karo kari», una recente pubblicazione scientifica ha riportato 1957 omicidi tra il 2004 e il 2007. Nell’88% dei casi a morire sono le mogli, nel 92% ritenute responsabili di adulterio. Ma la statistica è forzatamente incompleta: in assenza di dati ufficiali, raccolti da un ente governativo, gli studiosi si sono basati unicamente sulle fonti giornalistiche. In Gran Bretagna, dove risiede una importante comunità pachistana erede del colonialismo, il fenomeno del «karo kiri» ha costretto New Scotland Yard ad attivare un’unità speciale per l’investigazione e il contrasto del fenomeno. In alcuni casi, per eliminare con fredda premeditazione una donna «disonorata», i killer sono stati assoldati direttamente nel Paese d’origine, hanno viaggiato per migliaia di chilometri e assolto il loro mandato, prima di rientrare in Pakistan facendo perdere le proprie tracce. Il fenomeno tuttavia non è limitato al Pakistan o ai pachistani. Le Nazioni Unite segnalano che casi di honour killing sono stati riportati in Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Yemen, Iran, Irak, Turchia, ma anche in Francia, Germania, Gran Bretagna (dove le donne assassinate sono almeno una dozzina all’anno) Italia, Stati Uniti e Canada. In quest’ultimo Paese, l’opinione pubblica è rimasta colpita da un recente fatto di cronaca, la scoperta dei cadaveri di tre sorelle adolescenti e di una loro familiare. I loro comportamenti giudicati disonorevoli, avevano indotto i genitori ad ucciderle e occultarne i cadaveri in un’auto, poi portata ad affondare nelle acque di un lago. Fenomeno subdolo, diffuso, la piaga dell’honour killing chiede risposte che non possono esaurirsi in appelli alla crescita culturale, al superamento degli antichi pregiudizi sul ruolo subordinato delle donne. Occorre una forte presa di posizione a livello politico. Ancora esistono Paesi in cui l’eliminazione di una donna colpevole di adulterio, sorpresa in flagranza, non prevede alcuna punizione per l’assassino. Nemmeno se l’omicidio è stato pianificato con premeditazione. Turchia, Irak, Pakistan, Egitto e le comunità di emigranti che da questi paesi provengono, hanno altra posizione, che tuttavia nella sostanza garantisce l’impunità. Per le nazioni citate, il delitto d’onore non viene spesso riconosciuto, anzi c’è chi arriva a sostenere che sia un'invenzione dell’Occidente, puramente volta a screditare la tradizione e la cultura islamica. Tradizione? Cultura? Cinquemila vittime innocenti all’anno. E probabilmente, sono almeno il doppio.